Giuseppe Ravizza, classe 1962, era un esperto subacqueo ed un appassionato alpinista, socio della nostra sezione CAI dal 1994. Nel Novembre del 2011 Giuseppe ha perso la vita durante un immersione nel lago di Como all’età di 49 anni.
Ieri sera sua moglie Patrizia ha donato alla nostra sezione il materiale alpinistico del marito: picozze, ramponi, cordini, moschettoni, imbraghi e corde, materiale che sarà messo a disposizione dei più giovani che attraverso i nostri corsi si avvicineranno alla montagna.
Ho trovato la foto che fu pubblicata sui giornali ma, nei miei ricordi, rivedo Giuseppe vestito da montagna, con una maglia arancione, le braccia incrociate ed un gran sorriso mentre aspettiamo di partire per la salita.
Si era iscritto alla nostra sezione quando io compivo 18 anni ed avevamo frequentato insieme il corso di arrampicata della Scuola Alto Lario. Arrampicava spesso con Ginetto e con gli altri veterani.
Era una persona simpatica, mai invadente, con cui ti ritrovavi a chiacchierare con sincera allegria anche conoscendolo poco.
Lo ricordo con affetto perchè non era possibile non sentirlo amico.
A nome di tutti i soci ringraziamo Patrizia per il suo gesto e conserveremo la memoria di Giuseppe nella storia della nostra sezione.
«Dio del cielo, Signore delle cime, un nostro amico hai chiesto alla montagna. Ma ti preghiamo: su nel Paradiso lascialo andare per le tue montagne.
Santa Maria, Signora della neve, copri col bianco, soffice mantello, il nostro amico, il nostro fratello. Su nel Paradiso lascialo andare per le tue montagne.»
“…ora dovrò scendere a valle, verso la cosidetta normalità, vale a dire nella realtà della vita in cui ci si consuma a rincorrersi, senza capirci niente.
Credo proprio, lo penso anche in questo momento, che per svelare a noi stessi l’assurdità del vivere quotidiano, non esistano punti d’osservazione migliori di questi luoghi, che forse rimarranno incontaminati.
Da quassù il mondo degli uomini altro non sembra che follia, grigiore racchiuso dentro se stesso.”
″Un medico del Minnesota ricevette nel suo studio un contadino con un braccio rotto. Il braccio era piegato in due ed il contadino molto spaventato. Entrando di corsa nello studio del dottore urlò “devi fare qualcosa per me, devi fare qualcosa per me, devi fare qualcosa per me”. Il dottore si alzò, si avvicinò, si mise di fronte a lui e disse “fa molto male qui, vero?” ed il contadino annuì. Poi il dottore disse con un tono di voce molto dolce “ma fortunatamente non fa male qui, le tue dita e le tue spalle stanno bene. Ti fa male proprio solo qui, ma non qui nè qui. Solo qui. E’ tutto qua”. Nuovamente il contadino era daccordo con lui. Dopo che il dottore aveva frazionato il suo dolore, il contandino si calmò e si sedette su una sedia. Il suo spavento ed il terrore diminuirono. Subito dopo il dottore potè prendersi cura del suo braccio (Erickson, 1960a, 1962c)„
Si guarisce più facilmente quando la quantità delle risorse di Problem Solving del paziente sono superiori alla gravità del problema. La “frammentazione” è una strategia ampia con diverse applicazione. Lo stesso concetto si riflette nella famosa strategia militare: “divide et impera”.
Questo è uno dei tanti passaggi che possiamo trovare all’interno delle ricerche e delle osservazioni del Dottor Milton H. Erikson, psichiatra statunitense ed è uno dei più autorevoli teorici dell’ipnosi clinica e della cosiddetta psicoterapia breve del secolo scorso. Da lui deriva principalmente l’utilizzo più moderno dell’ipnosi, non legato esclusivamente alla cura di problemi psichici e della nevrosi.
La mente umana è come una macchina o un computer: se sai dove “mettere le mani” puoi davvero cambiare le regole se non addirittura sovvertirle (for better, for worse). Ma non è solo questo a rendere interessante lo studio di Erickson, a colpirmi è stata sopratutto la sua storia personale.
Nacque dislessico, con una cecità cromatica (l’unico colore che poteva vedere era il viola) e con una sordità tonale per cui non sentiva il ritmo. A 17 anni fu colpito dalla poliomelite e, dopo essere uscito dal coma, i medici gli dissero che sarebbe rimasto paralizzato.
Nella fattoria della famiglia trascorse giorni interi concentrandosi sul ricordo dei movimenti sviluppando le basi per la sua futura teroria della focalizzazione ideodinamica indiretta: quando si pensa ad un comportamento lo si agisce impercettibilmente al livello inconscio.
La sua mente, muscolo dopo muscolo, cominciò a rieducare il suo corpo:“era seduto su una sedia a dondolo e sentiva un forte desiderio di guardare dalla finestra. La sedia si mise a dondolare nonostante egli fosse completamente paralizzato!” Dopo un anno era in grado di camminare nuovamente con le stampelle, decise di diventare medico e si iscrisse a medicina
Al termine del primo anno di università realizzò il viaggio che più mi ha colpito: Erickson, nonostante le sue condizioni fisiche, decise di affrontare in canoa il Mississipi.
Partì nel mese di giugno, con indosso un costume da bagno, un paio di tute di riserva, un fazzoletto annodato sulla testa, 5 dollari e con scarse provviste. Non aveva sufficiente forza nelle gambe per tirare la sua canoa fuori dall’acqua e la sua resistenza fisica gli permetteva di nuotare solo per pochi metri e di pagaiare per poche miglia.
Imparò dai problemi le soluzioni per affrontarli in piena autosufficienza e, durante il viaggio, incontrò i personaggi che sarebbero stati la base delle sue ricerche sulla mente umana. Alla fine dell’estate, aveva percorso una distanza di 1.200 miglia e,al suo ritorno, la misura del suo torace era aumentata di sei pollici, poteva nuotare per un miglio e poteva pagaiare dall’alba al tramonto.
Un ragazzo paralitico che cerca e trova in se stesso la volontà per affrontare e superare i propri limiti fino ad affrontare un viaggio che lo fortificherà ma che sopratutto lo porterà, forse per la prima volta, ad uscire dall’ambiente domestico e ad osseravare gli altri comprendone, grazie alla propria esperienza introspettiva, i comportamenti e le scelte. Tutto questo agli inizi della di una carriera medica che lo porterà all’eccellenza e all’innovazione.
Una vita interessante quindi, densa di eventi che lo portarono a sviluppare la teroria sulla Resilienza e la basi per l’ipnosi moderna, a documentare dialoghi e situazioni su cui riflettere e comprendere molti dei meccanismi alla base del pensiero umano.
“Allora mio padre mi sfidò a fare entrare il vitello nella stalla. Visto che si trattava di una resistenza ostinata e irragionevole da parte dell’animale, decisi di dargli la più ampia occasione di continuarla secondo quello che era chiaramente il suo desiderio. Di conseguenza lo posi di fronte a un doppio legame: lo presi per la coda e lo tirai fuori dalla stalla, mentre mio padre continuava a tirarlo verso l’interno. Il vitello decise subito di opporre resistenza alla più debole delle due forze e mi trascinò nella stalla. (Milton H. Erickson, Opere vol. I, Astrolabio, Roma 1982, pp. 469-470).”
Davide Valsecchi
Nota Bibliografica: “Speranza e Resilienza – Cinque strategie psicoterapiche di Milton H Erickson” di Dan Short e Consuelo C. Casula. Ovviamente il libro è di Bruna e mentre ho incontrato la Dott.essa Casula (e scoperto Erickson) ad un convegno organizzato da Pietro qualche mese fa.
Io e Dario, il mio maestro, eravamo al bancone del bar di Lambrate. Nonostante l’Inverno eravamo in ciabatte e sotto le giacche indossavamo ancora il Karate-gi, la divisa bianca del Karate-do. Eravamo sempre di corsa spostandoci da una palestra all’altra cercando di arrivare in orario per iniziare le lezioni. Quella sera eravamo in anticipo e ci siamo concessi, indifferenti al nostro inconsueto aspetto, almeno un bicchiere di birra per tirare il fiato.
Avevamo appena lasciato una classe di bambini tra i 10 e 15 anni. Erano bimbi speciali: erano affetti di disfunzioni fisiche e mentali ma nonostante questo riuscivano ad esprimere nell’allenamento, che vivevano come un gioco di gruppo, un grande entusiasmo. A gestire la piccola classe una giovane ragazza che praticava Aikido nonostante fosse priva dell’uso di un braccio. Noi eravamo andati in visita, lei e Dario erano buoni amici.
Mentre ingollavamo birra Dario, un omone di quasi due metri, attacca con uno dei suoi discorsi:“Vedi Birillo, quei ragazzini mi danno sempre da riflettere” mi disse “In Oriente sono convinti che ci si rincarni vita dopo vita perché il nostro spirito si evolva attraverso l’esperienza. Quando vedo quei ragazzini mi rendo conto che la loro vita, la lora esperienza, è molto più dura della mia e forse questo significa che nel profondo sono molto più evoluti di me.” Sospirando con un sorriso malizioso tirò un fiato di birra “Nella grande ruota noi, che ci vantiamo della nostra forza, siamo come bambini all’inizio del nostro viaggio mentre loro sono vicini alla fine”
Quando il mio maestro si fa serio, quando non parla di donne o non si diverte a mettermi in imbarazzo di solito nasce una sfida tra noi: dissemina il discorso di trappole e se ne sta a guardare cosa combino. La sera prima si era presentato in palestra un gigantesco egiziano di vent’anni, aveva la borsa d’allenamento piena di pergamene di presentazione e titoli vinti nel suo paese. Voleva allenarsi ma nessuno delle cinture nere si era prestata al confronto preferendo non correre rischi. “Dai Birillo, vieni tu!” Aveva semplicemente detto Dario. Mi sono sempre piaciute le sfide più grandi di me, battermi al limite delle mie “probabilità“.
Dario stava stuzzicando il mio orgoglio: “Può essere” gli risposi “Forse però non siamo meno evoluti, semplicemente la nostra forza è lo strumento con cui dovremmo affrontare sfide ancora più dure. Abbiamo questa forza non perché siamo più deboli ma perché dobbiamo raggiungere uno scopo.” Il sorriso di Dario si fece ancora più compiaciuto e trionfante dietro il bicchiere, mi aveva portato esattamente dove voleva arrivare: “Bravo Birillo, ma ora che hai visto la loro forza saprai far buon uso della tua?” Si può rispondere, in modo onesto, ad una domanda simile?
Ero a Kigoma, in Tanzania, quando mi è tornato alla mente quest’episodio vecchio di quasi dieci anni. Ero seduto in una lercia veranda di un malandato ristorante. Insieme ad Enzo e a due tedeschi stavo mangiando Red Snapper alla griglia e patatine fritte. L’aspetto del pesce era orribile quasi quanto il gusto e nonostante la fame mi sforzavo di mangiare quella schifezza.
Lungo la strada polverosa vedo passare un bambino dall’età indecifrabile. Era tutto curvo con la testa incassata nelle spalle mentre teneva le mani vicino al petto gesticolando e parlando da solo. Camminava con gli occhi semi chiusi con un sorriso permanente nonostante tutto nel suo corpo esprimesse supplica e sottomissione. Ho cercato di inquadrarlo mentre tutta la gente in strada lo evitava: il ragazzino era evidentemente affetto da problemi mentali ed in Africa, dove questo tipo di malattie non sono nemmeno riconosciute, è una condanna a sopravvivere come un emarginato.
Non smetteva di sorridere trasmettendo gioia nonostante la sottomissione che, forse volutamente, esprimeva in tutti i suoi gesti contratti. Pensavo stesse in qualche modo fingendo un ruolo, peraltro giustificabile, ma era realmente autentico: ho visto un bimbo “fuori sincro” con il mondo che nonostante la sua terribile condizione, di cui era inconsapevole, era pervaso da una vera gioia, non stava fingendo bensì nel “suo mondo” si stava semplicemente adattando. Chiedeva, ridendo e supplicando al contempo, quello che gli serviva perchè quello era l’unico modo che l’esperienza gli suggeriva, nessuna premeditazione o ipocrisia.
Tutto in lui sembrava chiedere pietà ma il suo sorriso dietro quegli occhi chiusi e quel corpicino contratto mi catturava. Mentre lo guardavo incurisito la padrona del locale uscì allontanandolo in malo modo. Non sapevo ancora cosa fare e quindi non feci nulla, mi limitai ad attendere.
Il mio appetito era ormai scomparso e nel mio piatto c’erano ancora un buon numero di patatine e mezzo pesce. Avevo perso di vista il ragazzo quando ho sentito tirarmi i capelli (che per i Sikh rappresentano la sede della forza spirituale). Non avevo avvertito nessuna minaccia e girandomi me lo ritrovo davanti mentre rideva. Quello scricciolo era sgattaiolato dentro la veranda arrivandomi alle spalle senza farsi sentire: ora aveva la mia piena attenzione mentre con infinita semplicità indicava il mio piatto. Quando la padrona si è avvicinata ostile l’ho fulminata con lo sguardo mentre appoggiavo il mio piatto sul tavolo vicino.
Il piccolo, che non toccava terra seduto sulla sedia, ha cominciato a mangiare con le mani le patatine ed il pesce rimasto mentre lo guardavo sempre più incuriosito ed affascinato. All’improvviso si è alzato, sempre “fuori sincro” con il mondo, per prendere il sale: era “altrove”, in posti dove non potevo raggiungerlo. Non riuscivo a comunicare verbalmente con lui, non parlava e si esprimeva a gesti sempre sottomesso, ma inconsapevolmente era presente nel suo mondo che, da fuori, non era di sicuro il mio.
Ho ordinato una tazza di frutta a pezzi, ne ho mangiato metà e poi allungato la scodella al piccolo che aveva finito il pesce. Probabilmente non gli piaceva la frutta o semplicemente non avvertiva più la fame perché si è alzato e saltellando come uno gnomo se ne è andato con la stessa rapidità con cui era apparso. Avevo dato a lui quello che non mi serviva e per questo non c’era bisogno che mi ringraziasse.
Poi sono scoppiato a ridere divertito finendo la mia frutta: da piccoli ci insegnano che non si lascia il cibo nel piatto perché i bimbi in Africa muoiono di fame. Io ne avevo appena sfamato uno facendo l’esatto contrario.
Ho preso il bus 60 fuori nella periferia di Campbell. Ben Zanotto era lì e mi stava aspettanto. Tutti i punk rockers e i moon dancers in giro agli angoli delle strade stavano sperando nel cambiamento. Io ho cominciato a pensare, lo sai, ho cominciato a bere. Lo sai non ricordo molto di quei giorni, qualcosa mi è sembrato divertente quando siamo rimasti senza soldi. Dove vuoi andare quando hai solo 15 anni?
Con la musica e le chiacchiere sulla rivoluzione mi ha convinto. Si va!!
Dagli di stivale!! Le radici dei radicali!!
Dagli di stivale!! Lo sai che sono un radicale!!
Dagli di stivale!! C’è Root Reggae nel mio stereo!!
La radio stava suonando e Desmond Dekker stava cantanto sul bus 49 mentre salivamo su per la collina. Non c’era nulla di nuovo in arrivo ma il reggae martellava e venivamo tutti da case senza amore. Ho detto “Perchè diamine preoccuparsi!?” ed ho preso la bottiglia. “Hey Signor Autista del Pullman, fai salire quelle persone!”. Carol la Rude era una ragazza da minigonna e nella mia visione sfuocata non ho visto nulla di male…
Questo è la traduzione del testo della canzone Roots Radicals pubblicata nell’album …And Out Come the Wolves, il terzo LP dei Rancid edito il 22 agosto 1995. Nel’95 avevo 19 anni e passavo la vita sugli scassati treni delle Nord facendo i miei primi passi nella più grande metropoli italiana: Milano.
Dalla collina di Cranno e dalla piana di Scarenna ero finito tra i pullman, i tram ed i cunicoli sotterranei della metropolitana. Passavo la settimana tra gli ultimi banchi di un’ università sporca e trasandata che puzzava di chiuso e di idee vecchie mentre scoprivo una città fatta di vetri rotti e di marciapiedi affollati da gente indifferente.
La notte, senza macchina, eravamo in giro a piedi camminando tra le luci ed il pavè bagnato. Eravamo sempre lontani da casa, non c’era mai un pullman che ci potesse riportare all’infanzia delle nostre famiglie. Barboni, disperati, poliziotti e spazzini: questo vedevi andando in giro di notte sul nostro Skateboard, le sole ruote che avevamo la notte.
Ed è in quel periodo che Io, Bobo, Uan, Cris, Iceman, Nove e tutti gli altri ragazzi attraversavamo dal basso un mondo di fatto di lussi che non ci appartenevano, passando le serate cantando ed andando a zonzo in cerca di non si sa cosa in un mondo sconosciuto. Dannazione quanto tempo è passato, quante avventure vissute a due passi da dove non guarda la gente!
Tim Armstrong, il cantante dei Rancid, è dislessico e macino. Forse è quel suo modo di vedere le cose da un’altro punto di vista che lo hanno reso il poeta ed il musicista che è oggi all’età di 44 anni. Quando aveva 16 anni prese parte ai un piccolo gruppo locale che in meno di due anni divenne la più famosa band emergente d’America nella costa occidentale: gli Operation Ivy.
Fu a causa delle pressioni delle grandi case discografiche, maniacalmente interessate a scritturare i quattro ragazzi del gruppo allora poco più che adolescenti, che gli Op Ivy decisero di sciogliersi dopo aver suonato a 185 strepitosi concerti. Ognuno dei quattro prese la sua strada.
A 22 anni Tim non sapeva ancora quale fosse la sua: rischia di morire a causa di un coma etilico e diventa addirittura un senza tetto costretto a chiedere asilo nell’Esercito della Salvezza. E’ Matt Freeman, uno dei più grandi bassisti punk in attività, che salva Tim dall’abisso in cui era precipitato. Io due sono amici da quando avevano 5 anni, si erano conosciuti giocando a baseball nel parchetto del quartiere. Matt convince Tim a suonare di nuovo ed il resto diventa la storia ventennale dei Rancid.
Il tema più ricorrente nelle canzoni dei Rancid è la vita di strada. Grazie ad un’atmosfera cupa conferita dal basso, il gruppo parla di rapidi e fugaci amori, di giovani sbandati, di furti, di criminalità e discriminazione descrivendo gli squallidi quartieri di periferia alla ricerca di una speranza, di un cambiamento. Parlano di viaggi che spesso lasciano perplessi o sembrano non portare ad alcuna meta. Riflessioni personali che nascono dalla vita comune. Ma sopratutto parlano d’amicizia, di come un’amico sia l’unica opportunità per superare il degrado e la solitudine che spesso ci circonda e ci trascina verso il basso. Cantano la speranza e l’entusiasmo di chi crede che ancora si possa cambiare.
Oggi Tim Armstromg, dopo dieci album di successo, è riconosciuto come un grande artista moderno ed è il propietario di una casa discografica indipendente che può vantarsi di aver fatto crescere molti dei giovani gruppi oggi in circolazione. Lui e Matt Freeman non hanno mai smesso di suonare insieme.
Davide “Birillo” Valsecchi
Ps. Se ora volete cominciare a saltare per la stanza [Old Friend – Live]: “We know we are now far from Home, but we know it will be all right!!”
L’anno scorso, prima di partire per il viaggio in Himalaya, avevo preso contatto con Acuvue, il marchio Jhonson & Jhonson che produce le lenti a contatto che uso ormai da anni per sopperire alla miopia.
I responsabili dell’azienda si sono dimostrati gentilissimi e mi hanno inserito nel programma di test finali prima della messa in commercio del nuovo modello di lenti contatto usa e getta progettate per lo sport: le 1-DAY ACUVUE TruEye.
Mi hanno messo a disposizione queste nuove lenti a contatto e mi hanno presentato il Dottor Paolo Anzani di Como. Paolo è infatti uno degli oculisti italiani più conosciuti nel campo delle lenti a contatto, uno dei dottori che si occupa di condurre gli studi di verifica prima che un prodotto per la vista sia messo in vendita sul mercato italiano.
Prima della partenza, ogni venti giorni, mi recavo presso l’Ottica Vittani di Como dove il Dottor Anzani valutava il comportamento dei miei occhi e delle lenti, acquisendo ed archiviando dati ed immagini con i suoi strumenti. Al ritorno dal Ladakh, dopo tre mesi passati tra le montagne, abbiamo effettuato altri controlli valutando il comportamento delle lenti in un ambiente difficile come quello in quota ed il loro effetto sui miei occhi. Le lenti si sono dimostrate quanto di meglio avessi mai usato.
Se le lenti sono buone posso dirvi che Paolo è straordinario! Nell’ultimo anno grazie a lui molti dei problemi legati alla vista di cui ero affetto sono stati risolti ed ho imparato veramente molto sui miei occhi e su come prendermene cura. Paolo segue molti sportivi tra i quli un gran numero sono di altissimo livello: piloti di moto, nuotatori, sciatori, ginnasti e corridori. Tutti campi in cui la vista è fondamentale e sottoposta a situazioni difficili.
La sua esperienza è enorme ma ciò che lo rende veramente speciale è la gentilezza e la disponibilità con cui si confronta con i suoi pazienti. E’ uno di quei rari medici in grado di metterti a tuo agio offrendoti al contempo una competenza impareggiabile.Tutte le persone a cui ho consigliato di farsi visitare da lui hanno confermato questa piacevole esperienza.
I magnifici occhiali in plutonite della Oakley di cui mi sentite orgogliosamente parlare ogni due per tre sono sempre merito suo. Paolo ha semplicemente contattato i laboratori americani della Oakley, per cui esegue i test italiani, e ci ha fatto avere questi magnifici occhiali per proteggere i nostri occhi dalla luce himalayana.
La vista è realmente qualcosa di importante e a volte basta una giusta scelta dei materiali o un buon consiglio per migliorare radicalmente il nostro sguardo sul mondo. Se avete qualche problema o avete bisogno di qualcuno di cui fidarvi lui è la persona giusta. Lo trovate a Como in Piazza Vittoria 23, di fronte ai bastioni di Porta Torre accanto al Tribunale.
Per questo motivo voglio ringraziarlo con la massima ufficialità: se ho potuto “vedere” l’Africa e godere di quei magnifici scenari lo devo a lui, grazie Paolo!!
Nei primi mesi del 2008 è stato realizzato un film interpretato da Mikey Rourke intitolato “The Wrestler” e dedicato al mondo del wrestling. Il film è molto duro e spesso cruento tanto da disturbare anche me in certi passaggi.
Da noi il wrestling ha acquisito una grande notorietà che poi si è piano piano sgonfiata anche per via delle polemiche e delle critiche che lo hanno coinvolto nel nostro paese.
Il wrestilng non è reale, lo scontro fisico reale tra due uomini è molto più traumatico e violento di come ci viene mostrato sul ring.
I lottatori, atleti forse non convenzionali, “recitano” su un palcoscenico in mezzo al pubblico scene di lotta incredibili dove i sentimenti e la trama, forse un po’ troppo americanizzati, fanno l’occhiolino al teatro e alla tragedia. Buoni contro cattivi, amici, fratelli e parenti in lotta per titoli e cinture in un mondo astratto fatto di illusioni.
Quando non diventa una baracconata mi piace il wrestling ed alcuni personaggi hanno saputo catturare la mia ammirazione. Sì, perchè ci si appassiona al personaggio e all’uomo che lo interpreta sul ring, non si fa il tifo perchè vinca ma bensi perchè porti all’estrema rapprensentazione il proprio ruolo in questa circense commedia.
Molti detrattori parlano di atleti dopati, di culturisti gonfiati e cose simili. Sarei curioso di conoscere l’esito di un test antidoping in un qualsiasi corpo di ballo di uno dei maggiori teatri. Forse le critiche si ridimensionerebbero.
Uno dei mie preferiti era Eddie Guerrero, figlio di una famiglia di lottatori professionisti, intepretava il ruolo del wrestler guascogne, portavoce sfrontato di una minoranza etnica non era un eroe senza macchia ma un’adorabile mascalzone che sapeva esserci nei momenti che contavano. Oltre al suo carisma scenico era dotato di una capacità atletica e tecnica impressionate. Era incredibile vederlo muoversi sul ring interpretando il proprio ruolo teatrale eseguendo evoluzioni acrobatiche.
Io ed Ivan, all’epoca colleghi, decidemmo di andare al Forum per verdere una tappa dello spettacolo dal vivo qui in Italia. La serata si stava rivelando alquanto deludente, l’allestimento non era certo sfarzoso come quello americano ed il livello degli incontri “riempitivi” mostrava quanto sia difficile rendere credibile un combattimento senza scivolare nel ridicolo.
A metà serata, un po’ pentiti, eravamo più interessati ai decoltè delle signorine che distribuivano le bibite che al resto. Questo fino a quando non annunciarono l’ingresso di Rey Mysterio ed Eddie Guerrero sul ring: il forum cambiò completamente atteggiamento ed un’atmosfera incredibile calò sugli spalti e qualcosa di inspiegabile ma coinvolgente travolse persino me ed Ivan.
Quei due, come attori esperti, coivolgevano il pubblico confrontandosi contro i due cattivi di turno in uno scontro spettacolare fatto di incredibili salti e prese acrobatiche. Eddie volava lanciandosi dalle corde contro il proprio avversario mentre un migliaio di flash illuminavano il Forum ed il suo salto nel vuoto.
Quella sera Eddy e Rey persero contro i loro avversari ma la battaglia aveva raggiunto tali livelli epici che il pubblico era entusiasta ed incitavava comunque i suoi begnamini. Io, ridendo, ero consapevole della finzione di ciò che avevo appena visto ma non potevo che tributare la mia ammirazione per quello spettacolo che i quattro, i due buoni ed i due cattivi, avevamo messo in scena. Magnifico.
Questo per raccontare un artista, forse controverso, che ha saputo emozionarmi e che purtroppo è morto. Eddie Guerrero, stroncato da un infarto a 38 anni, il 13 novembre 2005. Da allora non ho più guardato un incontro…
“Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto nazionale lordo (PIL).
Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti.
Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese.
Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere Americani.”
Quello che avete letto non è il pensiero di qualche no global, di un teorico della decrescita felice, di un seguace dei verdi o di qualche dannato “rasta-panda” che vuole annoiare con le sue strampalate teorie. Sono le parole che pronunciò Robert Kennedy tre mesi prima di essere ucciso. Nel 1968, oltre quarant’anni fa.