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Colui che è odiato

Colui che è odiato

Fu suo nonno Autlico che gli diene nome Odisseo, “Colui che è odiato” o “colui che odia”, e lo fece sapendo che il nipote avrebbe combattuto per tutta la vita.

Odisseo, ormai vecchio, insofferente della riacquistata serenità a Itaca, riprenda la navigazione ripercorrendo le tappe delle sue straordinarie avventure. Ma il viaggio segna la fine delle sue illusioni, poiché la molla del suo andare per mare, la sete di sapere, si trasforma nella consapevolezza che nessuna conoscenza certa sia possibile.

Il corpo di Odisseo, sospinto dal mare, approda dopo nove giorni all’isola di Calypso, ma questa volta egli non è più l’uomo fiero della propria umanità, quello che rinunciò all’immortalità promessa dalla ninfa. Ora è invecchiato e indebolito e, non appena tocca terra, si abbandona alla morte.

Calypso, la ninfa immortale, ha un presentimento infausto appena sente i versi della cornacchia e del gufo. Nei versi conclusivi la dea avvolge il corpo dell’uomo nella massa morbida dei suoi capelli e al pianto funebre unisce l’amara riflessione sulla vita e sulla morte.

E il mare azzurro che l’amò, più oltre spinse Odisseo, per nove giorni e notti, e lo sospinse all’isola lontana, alla spelonca, cui fioriva all’orlo carica d’uve la pampinea vite. E fosca intorno le crescea la selva d’ontani e d’odoriferi cipressi; e falchi e gufi e garrule cornacchie v’aveano il nido. E non dei vivi alcuno, né dio né uomo, vi poneva il piede.

Or tra le foglie della selva i falchi battean le rumorose ale, e dai buchi soffi avano, dei vecchi alberi, i gufi, e dai rami le garrule cornacchie garrian di cosa che avvenia nel mare. Ed ella che tessea dentro cantando, presso la vampa d’olezzante cedro, stupì, frastuono udendo nella selva, e in cuore disse: – Ahimè, ch’udii la voce elle cornacchie e il rifi atar dei gufi!

E tra le dense foglie aliano i falchi. Non forse hanno veduto a fior dell’onda un qualche dio, che come un grande smergo viene sui gorghi sterili del mare? O muove già senz’orma come il vento, sui prati molli di viola e d’appio? Ma mi sia lungi dall’orecchio il detto!

In odio hanno gli dei la solitaria Nasconditrice. E ben lo so, da quando l’uomo che amavo, rimandai sul mare al suo dolore. O che vedete, o gufi dagli occhi tondi, e garrule cornacchie?

Ed ecco usciva con la spola in mano, d’oro, e guardò. Giaceva in terra, fuori sommosso ancor dall’ultima onda: e il bianco capo accennava di saper quell’antro, tremando un poco; e sopra l’uomo un tralcio pendea con lunghi grappoli dell’uve.

Era Odisseo: lo riportava il mare alla sua dea: lo riportava morto alla Nasconditrice solitaria, all’isola deserta che frondeggia nell’ombelico dell’eterno mare.

Nudo tornava chi rigò di pianto le vesti eterne che la dea gli dava; bianco e tremante nella morte ancora, chi l’immortale gioventù non volle. Ed ella avvolse l’uomo nella nube dei suoi capelli; ed ululò sul flutto sterile, dove non l’udia nessuno:

– Non esser mai! non esser mai! più nulla, ma meno morte, che non esser più! –

Versi dal poema di Giovanni Pascoli “L’ultimo Viaggio”.

Sogni di terre lontane e tempi andati

Sogni di terre lontane e tempi andati

Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare. Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare: scendono all’Adriatico selvaggio che verde è come i pascoli dei monti.

Han bevuto profondamente ai fonti alpestri, che sapor d’acqua natía rimanga ne’ cuori esuli a conforto, che lungo illuda la lor sete in via. Rinnovato hanno verga d’avellano.

E vanno pel tratturo antico al piano, quasi per un erbal fiume silente, su le vestigia degliantichi padri. O voce di colui che primamente conosce il tremolar della marina!

Ora lungh’esso il litoral cammina la greggia. Senza mutamento è l’aria. Il sole imbionda sì la viva lana che quasi dalla sabbia non divaria. Isciacquío, calpestío, dolci romori.

Ah perché non son io cò miei pastori?

G.C.

Jack London: La sfida e altre storie di boxe

Jack London: La sfida e altre storie di boxe

Con l’ultimo pezzetto di pane, Tom King ripulì il piatto del sugo che vi rimaneva. Poi, s’infilò il pane in bocca e prese a masticarlo lentamente, con aria assorta. Quando infine s’alzò da tavola, lo fece con la netta sensazione di non aver mangiato abbastanza. Pure, era stato l’unico della famiglia a toccar cibo; i bambini erano stati messi a letto nella stanza accanto perché s’addormentassero dimenticando d’aver saltato la cena, e sua moglie gli aveva fatto compagnia a tavola, seduta in silenzio a osservarlo piena d’ansia, senza mangiare: una donna della classe operaia, esile e dall’aria stanca, sfibrata, sebbene sul volto recasse ancora i segni di una passata bellezza. La farina per il sugo l’aveva presa a prestito dal vicino che abitava in fondo al corridoio, il pane l’aveva comprato con gli ultimi spiccioli che le erano rimasti.

Tom sedette accanto alla finestra, su una vecchia seggiola sgangherata che protestò sotto il suo peso, e meccanicamente s’infilò la pipa in bocca; poi, prese a frugarsi nella tasca della giacca, ma, non trovandovi il tabacco, si rese conto del proprio gesto e scosse la testa, quasi irritato per la sbadataggine che tradiva. Ripose la pipa. I suoi movimenti erano lenti, quasi impacciati, come se il peso stesso dei muscoli gli gravasse su tutto il corpo. Era un uomo massiccio dall’aspetto solido, tutt ’altro che attraente. Indossava abiti vecchi e informi, comprati a poco prezzo; la tomaia delle scarpe era troppo leggera per reggere la pesante risolatura di data non recente; e la camicia di cotone, un capo a buon mercato, aveva il colletto logoro e parecchie macchie di vernice ormai impossibili da togliere.

Ma era la sua faccia a rivelare in modo evidente chi fosse Tom King e che cosa facesse. Era la classica faccia del pugile, uno che alle spalle aveva ormai anni e anni di battaglie sul ring e dunque aveva sviluppato i tratti caratteristici dell’animale da combattimento, esasperandoli al massimo. Aveva lineamenti rozzi e – quasi a evitare che anche solo un loro tratto potesse sfuggire all’osservatore – s’era rasato di fresco. Le labbra erano informi e disegnavano una bocca dalla piega esageratamente aspra, un taglio attraverso il viso. La mascella era aggressiva, pesante, brutale. Gli occhi si muovevano lenti sotto le spesse palpebre ed erano privi d’espressione, incassati da sopracciglia folte e rientranti.

Era in tutto e per tutto un vero animale e il tratto più animalesco del suo aspetto erano proprio gli occhi, sonnacchiosi come quelli di un leone, gli occhi di una belva abituata a battersi. La fronte fuggiva veloce verso l’attaccatura dei capelli che, tagliati corti, rivelavano tutte le bozze tipiche d’un autentico bruto. Completavano il suo aspetto esteriore il naso rotto due volte e variamente rimodellato da un’infinità di brutti colpi successivi, e un orecchio eternamente gonfio come un cavolfiore, deforme fino a raggiungere due volte le dimensioni d’un orecchio normale; mentre la barba, per quanto rasata di recente, stava già rispuntando sulla pelle e dava al viso una nota bluastra.

Nell’insieme, era la faccia di un uomo che, a incontrarlo in un vicolo buio o in un luogo solitario, fa paura. Ma Tom King non era un criminale, non aveva mai commesso nulla di criminale. Tranne che in qualche rissa occasionale, ingrediente inevitabile della vita che conduceva, non aveva mai fatto del male a nessuno. E non aveva la nomea d’uno che si lasciava andare a menar le mani facilmente. Era solo un professionista del ring, e la brutale aggressività ch’era in lui era come tenuta in serbo per le apparizioni pubbliche.

Una volta sceso dal quadrato, era un uomo tranquillo, di buon carattere e, quand’era stato giovane e il denaro non mancava, aveva avuto la tendenza a lasciarselo sfuggire un po’ troppo facilmente per ricavarne nulla di buono per sé. Non aveva nemici, non nutriva odii o invidie. Il combattimento era un lavoro, per lui. Sul ring, colpiva per far male, per ferire, per distruggere; ma in ciò non mostrava animosità o cattiveria. Era solo un lavoro. I tifosi facevano ressa, pagavano per vedere lo spettacolo di due uomini che cercavano di mettersi K.O. E il vincitore si pigliava la fetta più grossa dell’incasso.

Quando Tom King aveva incontrato l’Accecatore di Woolloomoolloo, vent ’anni prima, sapeva benissimo che il suo avversario era guarito da soli quattro mesi da una brutta frattura alla mascella, subita durante una rissa a Newcastle: e per tutto l’incontro aveva mirato a quella mascella e finalmente, al nono round, gliel’aveva fracassata di nuovo. Non perché ce l’avesse con l’Accecatore, ma perché quello era il modo più sicuro di metterlo fuori combattimento e di portarsi a casa la fetta più consistente dell’incasso. E d’altra parte, nemmeno l’Accecatore gliene volle. Era parte del gioco. Lo sapevano tutt ’e due, e lo giocavano.

Non era mai stato un gran conversatore, Tom King. In silenzio, aggrottato, gli occhi fissi sulle proprie mani, se ne stava seduto accanto alla finestra. Sul dorso di quelle mani, le vene sporgevano bluastre e le nocche, rotte, scorticate, deformi, erano la prova più chiara del compito cui erano state destinate. Non gli aveva mai detto nessuno che la vita d’un uomo è tutta nelle sue arterie, ma sapeva bene quel che volevano dire quelle grosse vene in rilievo. Volevano dire che il suo cuore vi aveva pompato troppo sangue, a pressione elevata, e ora non funzionavano più tanto. Aveva chiesto troppo alla loro elasticità, e ora che avevano ceduto in modo così evidente anche la sua resistenza aveva cominciato ad andarsene.

Si stancava facilmente, ormai. Non ce la faceva più a resistere per quei venti round veloci, fatti di affondi e di bordate, di botte e botte e botte, da un gong all’altro, combinazioni su combinazioni, sempre più violente, senza tregua, martellato alle corde o martellando l’avversario all’angolo, e poi la furia dell’ultimoround, il più feroce, il più convulso e rabbioso; con il pubblico in piedi che urla a squarciagola, e tu come un turbine ad andare a segno, a fintare, a schivare, a rovesciare gragnole di colpi di ritorno, e, per tutto quel tempo, il tuo cuore fedele, affidabile, che pompa e pompa ondate dietro ondate di sangue per le vene giuste. E, dopo essersi gonfiate nel momento di massimo sforzo, quelle vene tornavano sì ad assottigliarsi, ma non del tutto: ogni volta restavano appena un poco più spesse di prima, impercettibilmente.

Tornò a fissar le vene, e poi si guardò le nocche martoriate, e per un attimo ebbe la visione fugace di com’erano lisce e perfette quelle sue mani quand’era giovane, quando non s’era ancora frantumato la prima nocca sulla testa di Benny Jones, noto anche come il Terrore del Galles.

Il morso della fame si fece sentire di nuovo. “Per dio, come mi farei una bella bistecca!” Bofonchiò ad alta voce, stringendo i pugni massicci e sibilando tra i denti una bestemmia.
“Ho provato da Burke e anche da Sawley.” Fece la moglie, quasi in tono di scusa.
“E non potevano farti credito?” Chiese Tom.
“Niente, nemmeno un centesimo. Burke ha detto…” la donna s’interruppe.
“ Va’ avanti! Che ha detto?”
“Ha detto che per lui Sandel te le suona stasera e che il conto era già abbastanza alto così com’era…”

King rispose con un grugnito. Pensò al bull-terrier che aveva avuto quand’era giovane, a tutte le bistecche che gli aveva dato da mangiare. Allora sì che Burke gli avrebbe fatto credito: per mille bistecche, altro che una! Ma i tempi erano cambiati. Stava invecchiando, ormai, Tom King. E i pugili vecchi, che si battono nei club di seconda serie, non hanno molte speranze di conservare conti aperti presso i bottegai.

Aveva voglia d’una bistecca da quando s’era alzato, quella mattina, e per tutto il giorno la voglia gli era rimasta. Non s’era allenato bene, per quest ’incontro. Era stato un brutto anno, quello, in Australia: tempi duri, difficile trovare un lavoro, anche il più irregolare.

Così, non era riuscito a pagarsi uno sparring-partner, e nemmeno la sua alimentazione era stata delle migliori; o anche solo sufficiente. Ogni tanto, per qualche giorno, aveva trovato da far lo sterratore e al mattino presto s’era fatto un po’ di fiato correndo per i viali del centro di Sydney. Ma era stata dura, allenarsi senza uno sparring-partner, e in più con una moglie e due figli da sfamare. Quando s’era diffusa la notizia che avrebbe incontrato Sandel, era riuscito a farsi dare qualcosa di più a credito dai bottegai; e il tesoriere del Gayety Club gli aveva anticipato tre sterline, la parte di borsa destinata allo sconfitto, ma più in là non se l’era sentito di andare. Di tanto in tanto, era riuscito a rimediare qualche spicciolo da vecchie conoscenze, che forse gli avrebbero scucito anche di più se quello non fosse stato un anno brutto anche per loro.

No: inutile nasconderselo, non s’era allenato per bene. L’alimentazione avrebbe dovuto essere migliore, e minori le preoccupazioni. E poi, a quarant ’anni suonati, si fa più fatica a rientrare in forma che non a venti. “Che ora è, Lizzie?”
La moglie uscì sul pianerottolo per chiedere, e tornò: “Un quarto alle otto.”
“Fra un paio di minuti comincerà il primo incontro… Solo un assaggio. Poi ci sono quattro round tra Dealer Wells e Gridley, e dieci tra Starlight e non so più che marinaio. A me tocca solo fra un’ora…”
Passarono altri dieci minuti di silenzio; poi, Tom s’alzò.
“La verità è, Lizzie, che non mi sono allenato bene.”

Prese il cappello e si diresse verso la porta. Non fece l’atto di baciarla, non lo faceva mai quando usciva; ma quella sera fu lei a osare e gli gettò le braccia al collo, l’obbligò a chinarsi e lo baciò: era così minuta tra le braccia di quel gigante.
“Buona fortuna, Tom.” Gli sussurrò. “Mettilo giù!”
“Già, mettilo giù!” Ripeté lui. “Già, non c’è altro da fare: solo metterlo giù…”

E mentre la moglie si stringeva a lui, Tom King cercò di ridere di cuore. Lanciò uno sguardo alla stanza nuda, alle spalle di lei: era tutto quel che possedeva al mondo, più un affitto arretrato, una moglie, due bambini. E ora stava per lasciare tutto e uscir fuori, nella notte, in cerca di cibo per la sua femmina e i suoi cuccioli, non come un operaio moderno che si reca alla macchina, ma nel vecchio modo primigenio, eroico, animale: combattendo per il cibo.

Tratto da Una bistecca, racconto contenuto ne La classica faccia da pugile di Jack London.

Milton Erickson: il contadino spaventato

Milton Erickson: il contadino spaventato

Milton Erickson
Milton Erickson

″Un medico del Minnesota ricevette nel suo studio un contadino con un braccio rotto. Il braccio era piegato in due ed il contadino molto spaventato. Entrando di corsa nello studio del dottore urlò “devi fare qualcosa per me, devi fare qualcosa per me, devi fare qualcosa per me”. Il dottore si alzò, si avvicinò, si mise di fronte a lui e disse “fa molto male qui, vero?” ed il contadino annuì. Poi il dottore disse con un tono di voce molto dolce “ma fortunatamente non fa male qui, le tue dita e le tue spalle stanno bene. Ti fa male proprio solo qui, ma non qui nè qui. Solo qui. E’ tutto qua”. Nuovamente il contadino era daccordo con lui. Dopo che il dottore aveva frazionato il suo dolore, il contandino si calmò e si sedette su una sedia. Il suo spavento ed il terrore diminuirono. Subito dopo il dottore potè prendersi cura del suo braccio (Erickson, 1960a, 1962c)„

Si guarisce più facilmente quando la quantità delle risorse di Problem Solving del paziente sono superiori alla gravità del problema. La “frammentazione” è una strategia ampia con diverse applicazione. Lo stesso concetto si riflette nella famosa strategia militare: “divide et impera”.

Questo è uno dei tanti passaggi che possiamo trovare all’interno delle ricerche e delle osservazioni del Dottor Milton H. Erikson, psichiatra statunitense ed è uno dei più autorevoli teorici dell’ipnosi clinica e della cosiddetta psicoterapia breve del secolo scorso. Da lui deriva principalmente l’utilizzo più moderno dell’ipnosi, non legato esclusivamente alla cura di problemi psichici e della nevrosi.

La mente umana è come una macchina o un computer: se sai dove “mettere le mani” puoi davvero cambiare le regole se non addirittura sovvertirle (for better, for worse). Ma non è solo questo a rendere interessante lo studio di Erickson, a colpirmi è stata sopratutto la sua storia personale.

Nacque dislessico, con una cecità cromatica (l’unico colore che poteva vedere era il viola) e con una sordità tonale per cui non sentiva il ritmo. A 17 anni fu colpito dalla poliomelite e,  dopo essere uscito dal coma, i medici gli dissero che sarebbe rimasto paralizzato.

Nella fattoria della famiglia trascorse giorni interi concentrandosi sul ricordo dei movimenti sviluppando le basi per la sua futura teroria della focalizzazione ideodinamica indiretta: quando si pensa ad un comportamento lo si agisce impercettibilmente al livello inconscio.

La sua mente, muscolo dopo muscolo, cominciò a rieducare il suo corpo:“era seduto su una sedia a dondolo e sentiva un forte desiderio di guardare dalla finestra. La sedia si mise a dondolare nonostante egli fosse completamente paralizzato!” Dopo un anno era in grado di camminare nuovamente con le stampelle, decise di diventare medico e si iscrisse a medicina

Al termine del  primo anno di università realizzò il viaggio che più mi ha colpito: Erickson, nonostante le sue condizioni fisiche, decise di affrontare in canoa il Mississipi.

Erickson in Canoa sul Mississipi
Erickson in Canoa sul Mississipi

Partì nel mese di giugno, con indosso un costume da bagno, un paio di tute di riserva, un fazzoletto annodato sulla testa, 5 dollari e con scarse provviste. Non aveva sufficiente forza nelle gambe per tirare la sua canoa fuori dall’acqua e la sua resistenza fisica gli permetteva di nuotare solo per pochi metri e di pagaiare per poche miglia.

Imparò dai problemi le soluzioni per affrontarli in piena autosufficienza e,  durante il viaggio, incontrò i personaggi che sarebbero stati la base delle sue ricerche sulla mente umana. Alla fine dell’estate, aveva percorso una distanza di 1.200 miglia e,al suo ritorno, la misura del suo torace era aumentata di sei pollici, poteva nuotare per un miglio e poteva pagaiare dall’alba al tramonto.

Un ragazzo paralitico che cerca e trova in se stesso la volontà per affrontare e superare i propri limiti fino ad affrontare un viaggio che lo fortificherà ma che sopratutto lo porterà, forse per la prima volta, ad uscire dall’ambiente domestico e ad osseravare gli altri comprendone, grazie alla propria esperienza introspettiva, i comportamenti e le scelte. Tutto questo agli inizi della di una carriera medica che lo porterà all’eccellenza e all’innovazione.

Una vita interessante quindi, densa di eventi che lo portarono a sviluppare la teroria sulla Resilienza e la basi per l’ipnosi moderna, a documentare dialoghi e situazioni su cui riflettere e comprendere molti dei meccanismi alla base del pensiero umano.

“Allora mio padre mi sfidò a fare entrare il vitello nella stalla. Visto che si trattava di una resistenza ostinata e irragionevole da parte dell’animale, decisi di dargli la più ampia occasione di continuarla secondo quello che era chiaramente il suo desiderio. Di conseguenza lo posi di fronte a un doppio legame: lo presi per la coda e lo tirai fuori dalla stalla, mentre mio padre continuava a tirarlo verso l’interno. Il vitello decise subito di opporre resistenza alla più debole delle due forze e mi trascinò nella stalla. (Milton H. Erickson, Opere vol. I, Astrolabio, Roma 1982, pp. 469-470).”

Davide Valsecchi

Nota Bibliografica: “Speranza e Resilienza – Cinque strategie psicoterapiche di Milton H Erickson” di Dan Short e Consuelo C. Casula. Ovviamente il libro è di Bruna e mentre ho incontrato la Dott.essa Casula (e scoperto Erickson) ad un convegno organizzato da Pietro qualche mese fa.

Uno dei remi Flaghéé usato nella Como-Venezia
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