“Arrampicate Libere sulle Dolomiti” è uno dei nuovi volumi che si sono aggiunti alla Biblioteca Canova. Un libro di Severino Casara, seconda edizione del 1950 dopo la prima del 1944. Casara, nato il 26 Aprile del 1903, fu un valente arrampicatore nonché compagno di cordata di Emilio Comici fino alla sua caduta fatale, nell’ottobre 1940. Il testo è un connubio tra i suoi ricordi, le imprese con l’amico Comici e le testimonianze raccolte su Paul Preuss, scomparso il 3 Ottobre 1913, di cui ha ricevuto gli appunti personali.
«L’ascensionismo non è uno sport, come molti profani ed alcuni arrampicatori vorrebbero sostenere – scrive Casara illustrandoci la sua visione di alpinismo – ma concezione squisitamente eroica che eleva l’uomo audace ad uno stato di grazia sulla montagna. È il dominio del vuoto. Infatti il corpo è librato nell’aria, eccetto i quattro punti degli arti che toccano la parete levigata e strapiombante. È il volo umano senz’ali verso l’alto. »
Casara riceve l’archivio di appunti, relazioni e fotografie di Paul Preuss dalla sorella Minna e dal cognato Paul Relly. «Narrare qui le imprese di Preuss sarebbe troppo lungo, basterebbe ricordare che nella sua breve vita egli riuscì a compiere su tutte le Alpi oltre 1200 ascensioni, fra le quali 150 di nuove e oltre 300 da solo! E cadde a 27 anni!».
L’autore, nel passaggio che ho voluto riproporre qui, riporta le celebri “sei massime” di Preuss arricchendole con la traduzione di suo testo originale in cui illustra e spiega la sua teoria alpinistica. Dalle testimonianze del libro emerge poi l’insospettabile carattere di Preuss: avevo sempre creduto fosse una personalità schiva e solitaria, invece traspare una figura luminosa e socievole, amata e benvoluta. “Salire montem in laetitia” fu il suo motto. Così, ora le sei regole non mi sembranop più essere pilastri d’etica o fondamenti della vera sicurezza, ma mi appaiono invece come linee guida d’ispirazione per la ricerca di una felicità che sembra in parte perduta.
Ecco il testo di Casara e di Preuss:
[Severino Casara – 1994] Preuss era un purista e riteneva che la lotta coi monti fosse intrapresa liberamente e, vorrei quasi dire, onestamente, senza l’aiuto di alcun artificio. Usava la corda solo quando si univa a compagni: ma in tal caso aveva ideato un nodo che si sarebbe facilmente sciolto qualora egli fosse precipitato, e non avrebbe così travolto l’amico. Considerava che le difficoltà maggiori di arrampicamento si sogliono incontrare «negli strapiombi in parete libera e nelle traversate»; e la massima «quando gli uni e le altre si combinano». Derideva i tanti che parlano di arrampicate «per pareti lisce come un muro, senza appigli e senza appoggi». Diceva che non ne aveva mai vedute. Ad affermare tale principio, quello di vincere anche le più difficili montagne con le sole proprie risorse naturali, non poteva essere che lui, creatura eletta e dotata delle migliori energie fisiche e morali. Era già stato maestro in ogni esercizio, sì da vincere i campionati accademici austriaci di tennis, scherma e pattinaggio, figura e stile. Ma ben presto la sua attività si rivolse tutta alla scuola severa della montagna.
Sostenne con vari scritti e illustrazioni la necessità di salire sulla montagna senza l’uso dei mezzi artificiali, utili soltanto in caso di pericolo. Il suo nuovo verbo, che rivoluzionava la già invadente tecnica alpina dei chiodi e della doppia corda, provocò discussioni in tutti gli ambienti alpinistici. Il 31 gennaio del 1912 il dott. Preuss fu invitato a una riunione a Monaco promossa dalla Sezione Bavarese del D. Oe. Alpenverein. Tutti i migliori esponenti dell’alpinismo parteciparono a quella storica seduta: Nieberl, Oertel, Dilfer, Jacobi, Leuchs, Hibel, Piaz e tanti altri. E Preuss quella sera espose brillantemente la sua teoria fondandola sulle note sei massime, che trascrivo:
- Non bisogna essere soltanto all’altezza delle difficoltà che si affrontano, ma bisogna essere nettamente superiori ad esse
- La misura delle difficoltà che un alpinista può con sicurezza superare in discesa senza l’uso della corda e con animo tranquillo, deve rappresentare il limite massimo delle difficoltà che egli può affrontare in salita.
- La giustificazione dell’impiego dei mezzi artificiali vi è soltanto nel caso di pericolo.
- Il chiodo da roccia è una riserva per casi di necessità, ma non deve essere il fondamento di una tecnica speciale.
- La corda può essere una facilitazione ma non il mezzo indispensabile per rendere possibile una salita.
- Su tutto deve dominare il principio della sicurezza. Però non l’assicurazione forzatamente ottenuta con mezzi artificiali in condizioni di evidente pericolo, ma quell’assicurazione preventiva che per ogni alpinista deve basarsi sul giusto apprezzamento delle proprie forze.
Venne pure esaurientemente discussa la distinzione fra alpinismo e acrobatismo. E Preuss, esposte le sue vedute sull’essenza dell’alpinismo e sulle relazioni con l’acrobatismo, concluse che la meta da raggiungersi è la loro fusione. Espose inoltre il suo fondamentale principio di poter sempre discendere rampicando per dove si è saliti. Principio incredibile allora — e più ancora oggi che nell’alpinismo ha preso il sopravvento l’acrobatismo — ma da lui dimostrato assolutamente veritiero. Chi mai compie oggi una discesa per roccia senza far uso della corda doppia e dei chiodi? Da ciò è derivato che pochissimi hanno imparato a scendere dalla roccia arrampicando per dove sono saliti.
Su tale argomento Preuss si soffermò con una chiara e convincente esposizione che credo utile tradurre: «Ammetto volentieri che l’arrampicare in discesa è più difficile che quello in salita, ma questo perchè gli alpinisti ci sono meno abituati e perchè non l’hanno imparato. Effettivamente i punti più difficili si possono fare arrampicando in discesa quando soltanto si conoscono già in salita. Ma che vi sia un punto fattibile con sicurezza in salita ma non in discesa, lo posso escludere per mia esperienza personale. L’arrampicata in discesa, come già ho replicato a Piaz, può essere imparata e la capacità di arrampicarsi in discesa deve guidare l’alpinista nella scelta delle sue imprese. Appunto il fatto che Nieberl mette tanto in rilievo il pericolo delle mie teorie, è prova di quanto poco egli abbia compreso l’intimo significato di ciò che io pretendo. Io sarei «un mostro senza cuore» e il mio ideale «un orribile Moloch» se fosse vero che pretendo che gli alpinisti in certa maniera sappiano «morire in bel modo». Con quanta poca fondatezza mi sia rivolta tale accusa può Nieberl giudicare da questo. Volentieri seguo il suo pensiero «un solo misero chiodo da roccia lo avrebbe salvato». Ma chiedo di più. Era necessario e sarà sempre necessario che continui così? Non ci sarà una Potenza che difenda l’alpinista da se stesso, che gli impedisca di spingersi all’estremo limite delle sue possibilità, dove Vita e Morte si contrastano in un equilibrio già instabile? Negli ultimi anni, molti, spaventevolmente molti, sono caduti a morte proprio nel superare punti difficili. Ma sarebbe forse morto alcuno dei caduti se il sentimento morale e sportivo loro fosse stato giudicato dalla massima: « Nessun passo avanti, dove tu non puoi ridiscendere? ». Il Moloch è il principio attuale, e lo dimostrano i risultati degli ultimi decenni, e centinaia di vittime gli si sono immolate. Crede dunque Nieberl che la maggior parte degli alpinisti sappia meglio manovrare colla corda e coi chiodi che i con la roccia e con se stessi? Per impiegare i mezzi artificiali « moderatamente e con criterio », come dice Nieberl, si dovrebbe essere già maestri di prim’ordine. Ma in tal caso non se ne avrebbe bisogno perchè si dovrebbe stabilire il limite delle proprie possibilità. « E ora mi capirà forse bene Nieberl se dico: vi è un’importante esigenza e cioè l’educazione dell’Alpinismo. Bisogna educare i principianti a frenare il loro amor proprio ai limiti delle loro capacità, a tenersi elevati nella loro morale come nella loro tecnica, non più alti e non più bassi. Nel sapersi trattenere e frenare si rivela il maestro! L’autorizzazione morale per difficili ascensioni non risiede in attitudini fisiche o in virtuosismi di tecnica quanto nella educazione delle basi spirituali e morali e nel corso dei pensieri dell’alpinista. «La bella epoca del vecchio Alpinismo può risorgere se regolando le ascensioni coll’educare lo spirito e la mente degli alpinisti si respingerà di nuovo nei suoi confini il «decadimento mentale i sportivo » (sportversimpelung), come lo ha chiamato Planck, la «manualità dei mestieranti » (handwerkméssige Betrieb), come la chiamerei io. «Ora i monti sono odiati, combattuti con ogni mezzo; ma si imparerà a temerli e ad amarli! ». Preuss certo antivedeva dove si sarebbe andati a finire con l’ammettere l’uso indiscriminato dei chiodi. Chi avrebbe più potuto fissare un limite? La parola «impossibile » sarebbe un po’ alla volta scomparsa. Dall’alpinismo si sarebbe passati all’acrobatismo; dalle vittorie sulla montagna libera e pura, alle gare sportive sulla montagna addomesticata. Si sarebbe anche arrivati alle « strade ferrate » fino alle cime… (col biglietto d’ingresso?).
E ci siamo arrivati. Se si continua sempre di più con questo… progresso di piantamento di chiodi (siamo giunti ai 60 e più per una sola via), non occorrerà neppure farle costruire da apposite imprese industriali, queste «strade ferrate», perchè vedremo divenuta realtà la predizione di Irving nel suo famoso «The romance of Mountaineering », il romanzo dell’Alpinismo: «Verrà giorno in cui la via segnata da corde e da chiodi che un arrampicatore costruirà per vincere una sua parete non sarà più possibile distinguerla da una funivia… ».
Foto: Preuss all’attacco della sua parete al Campanil Basso (28 Luglio 1911), Preuss sul DonnelKogel, Copertina libro.