Gli anni della scoperta

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Ivan Guerini – Annuario 75° CAI Lissone 2007. Sarà stato d’inverno, o giù di lì, nel settantuno del secolo e del millennio appena trascorsi, quando conobbi alcuni arrampicatori della sezione del C.A.I. di Lissone. Ci trovavamo, assieme ai rispettivi compagni di cordata, alla Trattoria dello Zaccheo, punto d’incontro degli arrampicatori e degli alpinisti che andavano e venivano dalle pareti delle Corna di Medale nei sabati da fine inverno a metà primavera, una volta che s’abbandonava lo sci e si ricominciava ad arrampicare in vista della stagione estiva.

“Il Medale” ti faceva sentire, per ampiezza e ripidità della sua prospettiva, al centro di una parete insigne, caratterizzata da un terreno misto, con le rocce brizzolate dall’erba anziché dalla neve, che aveva pochi itinerari ripetuti, dai chiodi essenziali sui quali il buon senso vietava di cadere. Allora mica c’erano i “monotiri” dove specchiare la propria disinvoltura su passaggi e difficoltà che si conoscono a memoria: per riprendere la forma i più cominciavano direttamente con trecentottanta metri di diedri saldi ma già allora unti dall’usura, raccordati da lunghi tratti su blocchi saldati dalla terra, che qualche volta venivano via al grido di: SAAASSSOOO!

Zaccheo invece era l’alpino che gestiva la trattoria, un uomo saldo dalle mani forti, col viso inciso da rughe simili a solchi lasciati dai raggi di sole, ai quali non poteva certo sottrarsi facendo il contadino, e perennemente abbronzato: assomigliava ad Anthony Quinn in uno di quei film nei quali interpretava un marinaio; sempre disponibile, ti dava le informazioni sugli itinerari che non avevi ancora fatto e non aveva fatto nemmeno lui, ma che aveva sentito descrivere tante volte con entusiasmo dai rocciatori.

Di ritorno dalle vie si era spesso disidratati, giacché la forma concava della parete tratteneva implacabilmente l’irradiazione solare raddoppiandola nelle ore centrali del giorno e trasformando il tepore primaverile in caldo torrido. Allora si ordinava ”birra e gazzosa” e talvolta, quand’eri affamato per il fatto d’esser stato troppo a lungo su qualche via più impegnativa del solito, anche i formaggi caprini sott’olio.

Nella trattoria c’era una cartolina in bianco e nero della parete: gli itinerari erano segnati male, ma la foto era talmente nitida che ti dava la possibilità di notare le linee progressive dei diedri e dei pilastrini là dove non c’erano i tratteggi bianchi degli itinerari.

Proprio quella mancanza d’indicazioni divenne per me fonte d’ispirazione, perchè m’insegnò a notare tutto ciò che non era ancora stato percorso: fu così che credendo di salire nuovi itinerari mi trovai a ripetere per primo quelli compiuti nei decenni precedenti dai due forti arrampicatori Serafino Colnaghi e Mario Bianchi.

Oggi quella trattoria non c’è più e con lei anche la memoria di eventi e personaggi che ho appena citato è tramontata dietro il crinale delle generazioni succedutesi.

Nell’arco di qualche mese incontrai gli amici lissonesi in occasione di altre uscite, durante le quali, approfondendosi la reciproca conoscenza, essi giunsero a confidarmi le esperienze più severe vissute in montagna: salite effettuate in condizioni meteorologiche divenute repentinamente avverse e affrontate con ripari di fortuna; tragedie sfiorate per cadute di sassi o incidenti in parete.

Nel loro racconto mi aveva in particolare colpito il sangue freddo e la capacità di “razionalizzare” conservata anche nelle situazioni più difficili e drammatiche, a dimostrazione di grande preparazione mentale e di solido carattere.

Cose che “narrano i superstiti” potrebbe affermare oggi Lammer, forse smorzando la sua drastica etica. La mia curiosità e l’impressione destata da quei racconti, che mi sembrava illustrassero esperienze delle quali far tesoro poiché potevano accadere a tutti, acuirono il mio entusiasmo giovanile, facendomi riflettere sul fatto che i veri rischi e pericoli nei quali si poteva incorrere in montagna erano soprattutto la casualità e l’imprevisto.

Fortemente colpito dalle peripezie, dalla mirabolante maestria e dalla straordinaria Fortuna di quel gruppo di scalatori, pensai che essere iscritti alla sezione di Lissone del C.A.I. fosse senza ombra di dubbio garanzia di frequentare individui dotati del raro talento di saper schivare abilmente gli imprevisti, persone senza fisime e decisamente più alla mano degli intellettuali arrampicatori milanesi che avevo conosciuto.

Soprattutto avevano quel “pizzico d’immortalità” fondamentale per recarsi in montagna ben prima dello Spit, del Meteo Svizzero, del G.P.S, e dei cellulari oggi necessari per salutare la fidanzata dalla sommità d’un ottomila.

Assieme a loro nell’estate del ’73 mi recai alle Calanques e a salire il Pic d’Aneto, la vetta più alta dei Pirenei. L’anno successivo ripetemmo la precaria via artificiale di Cesare Maestri ed Ezio Alimonta sull’aggettante e sfaldata Rocca di San Leo, e in seguito ancora con loro e alcuni amici monzesi ci arrampicammo alla Sfinge per la via Elli, da sempre poco frequentata. Così mi resi conto che non sempre in montagna succede qualcosa di grave.

In quel tempo, nella storia dell’arrampicata Italiana ed Europea iniziava un processo di rinnovamento: a Courmayeur avevano importato dall’Inghilterra le prodigiose e assai strette pedule d’arrampicata con le quali gli Inglesi e gli Americani salivano da tempo difficoltà elevate in Free Climbing” mentre alla CAMP di Premana potevi trovare i primi nut, coi quali ci si poteva assicurare riducendo l’utilizzo dei chiodi in ”Clean Climbing”.

Nel primo anno del mio periodo d’iscrizione alla Sezione del C.A.I. di Lissone cominciò la mia ascesa esplorativa in montagna. Assieme ad un mio compagno di liceo feci quattro vie nuove su quattro montagne diverse, situate in quattro dei luoghi meno frequentati della Val Masino. In una di queste fu percorso il primo tratto di VII° delle Alpi Centrali, prima in montagna che in fondovalle e dunque ben tre anni prima del Precipizio degli Asteroidi.

Di lì a qualche tempo la Scala Welzenbach delle Difficoltà, ferma dal ’36 al sesto grado”, si sarebbe aperta verso l’alto anche grazie a quest’ultima salita.

Prima di tutto questo, avevo praticato spontaneamente l’arrampicata ad incastro sul calcare delle Prealpi Lombarde per evitare le facili lastre pericolanti che circondavano le più attraenti ma difficili fessure verticali, ignaro che si trattasse di un metodo di salita praticato sul granito della Yosemite Valley.

Erano quelli anni di fermento e d’inventiva, tanto che avevo chiamato “Antimedale” una parete mai presa in considerazione, salendola per la prima volta con un itinerario ancor oggi impegnativo; avevo inoltre praticato intensamente l’arrampicata sui massi della Val Masino e in modo del tutto naturale iniziato ad esplorare le lisce fiancate della Val di Mello.

Nella primavera del 1974, in occasione del pranzo sociale della Sezione al Cainallo, mi fu consegnata una targa d’argento per quelle salite: si trattò di un gesto che apprezzai, giacché nessuno prima d’allora aveva preso in considerazione il nostro entusiasmo giovanile di scopritori, proprio perché in quei tempi era consuetudine dar più valore alle ripetizioni degli itinerari più “difficili” e “classici” dell’epoca.

Il Presidente del CAI Lissone d’allora era Dario Schiantarelli, proprietario di una ditta che costruisce ancora oggi bei giocattoli e utili accessori per bimbi: da individuo schietto e lungimirante qual era si offrì di rifornirci di tutto il materiale che ci occorreva per salire pareti impraticate.

Il sottoscritto, che ”pensava alle pareti di giorno per sognarne di notte le salite”, richiese a negozi specializzati un numero spropositato di chiodi, nuts, corde e quant’altro per sé e per i compagni di cordata.

La spesa sostenuta per quell’acquisto non scompose per niente la ferrea determinazione da “capitano d’industria” di Dario, ed egli accettò di buon grado il fatto compiuto, considerandolo di buon auspicio per un futuro di salite impegnative. Le salite furono talmente numerose che i chiodi finirono molto presto!

Ora pochi sanno che in quel tempo esisteva una “succursale” decisamente singolare della Sezione di Lissone, nella quale ci si recava quando il CAI chiudeva i battenti: era la trattoria del Bar Gallo, dove c’erano ancora gli anziani che giocavano a bocce sotto il pergolato di glicine, i tavoli in legno, il ”calcetto”(non quello che s’intende oggi, bensì il biliardino) e dove la paziente signora che gestiva il locale ci faceva la pasta asciutta col vino bianco solo dopo mezzanotte.

Si trovava in una piazza al confine con Monza, dove vi era anche una chiesa, che sembrava sorvegliare a distanza agli schiamazzi e le ridde della compagnia che in quel locale s’era formata spontaneamente. L’atmosfera di quelle tarde ore pareva un fuoco che aveva per fiamme e per bagliori discorsi intensi e crepitanti entusiasmi avvolti dal manto silenzioso della notte: in essa ognuno dava il meglio di sé discutendo della vita e delle esperienze vissute e germogliavano idee un po’ folli e un po’ grandi, come quella di salire la Cassin del Medale di notte con la Luna piena, per rimanere poi straniti dalla scoperta che la luce diafana del vicino satellite evidenziava sulla roccia le linee d’ombra degli appigli e degli appoggi meglio che di giorno.

Esperienze esaltanti dunque, vissute non soltanto in Brianza, ma anche in luoghi lontani, raggiunti grazie alle ferie durante le quali si affrontavano impegnative trasferte, come quando, stipati in tre in un’utilitaria e guidando a turno senza soste per quattro giorni filati, arrivammo al vulcano Damavand in Persia. La salita di quella cima fu, dopo la protratta immobilità forzata del viaggio in auto, quasi un piacevole diversivo.

Quella compagnia non sarebbe per altro mai esistita senza la presenza di un personaggio formidabile, la cui memoria storica si è momentaneamente assopita ma potrebbe, conoscendo il personaggio, imprevedibilmente riaffiorare: ”Marietto”, un gigantesco e forzutissimo ragazzone dalla cassa toracica prominente e dalle energie assolutamente irrefrenabili, che avrebbe fatto la sua figura come capo di una gang di teddy-boys degli anni ’50 e che era la figura emblematica dell’iniziatore al ”senso della vita”.

Da solo era in grado di coricare su un fianco un’auto, di qualsiasi cilindrata con l’autista a bordo, giusto per fargli provare un’emozione simile all’inabissamento del Titanic; non contento di quelle ”prestazioni materiali” egli andò poi incontro anche ad una maturazione del carattere che lo portò a plasmare con etica saggezza la propria energia dirompente.

Elencare le “sperimentazioni esistenziali” compiute da ’Marietto” sarebbe troppo difficile, tuttavia ricordo come “pietra miliare” di questo percorso ideale la serata al Gallo durante la quale, da astemio qual ero, mi ritrovai per la prima volta un po’ brillo. Facendo l’equilibrista sul muro di cinta d’un collegio femminile, cosparso di cocci di vetro, saltai maldestramente e nel cadere m’incastrai nella biforcazione d’un albero, tanto che il mio secondo di cordata, in condizioni simili alle mie ed in preda alle risa, non riusciva a togliermi dall’impaccio di quella situazione imbarazzante.

Ci pensò l’ombra gigantesca di ”Marietto”, che comparve fulminea e, sollevandomi senza alcuno sforzo, caricò me su una spalla, il secondo sull’altra e ci coricò entrambi nel bagagliaio dell’auto, uno addosso all’altro come valigie umane, portandoci poi a casa senza batter ciglio alle prime luci del giorno.

A colazione mia madre commentò: “Se ieri non ci fosse stato Marietto a farti da angelo custode chissà quale tremenda sorte ti avrebbe riservato quella scorribanda!” “Quale scorribanda?” risposi io, del tutto dimentico di quella iniziazione.

Qualche anno dopo, di ritorno dal Parco di Monza, mi capitò di fermarmi con Monica al Bar Gallo per un calice e un panino: nella penombra della sala c’era sempre il vecchio disegno ingiallito dai bordi sbrecciati che illustrava i pesci dei fiumi e dei laghi Lombardi, ma sotto il pergolato non c’erano più gli anziani, le bocce erano immobili sulla sabbia e nell’aria estiva, tremolante per la calura, si sentiva solo il ronzio di qualche insetto ebbro per il profumo dolciastro del glicine.

Anni dopo ancora, passai là davanti in automobile assieme a Vasco Taldo, ma il Bar Gallo non c’era più: era diventato un ristorante cinese, mentre noi eravamo ancora diretti al Medale con lo spirito di sempre.

Ivan Guerini
Annuario 75° CAI Lissone 2007

Foto Iniziale: Rugge sul traverso della Cassin – 2019. Tassi del Moregallo

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