Il giorno in cui Marco Anghileri cadde sul Bianco lo ricordo molto bene. Quel giorno di metà Marzo del 2014, Mattia ed Io avevamo ripetuto la nostra prima via sul Corno Orientale, il Diedro dell’Oro, una via del ‘39. All’epoca avevamo ripetuto alcune vie sul Corno Occidentale e sul Centrale, ma l’Orientale, con la sua grande onda, ancora ci incuteva timore. Superare il diedro ed il freddo di quel giorno plumbeo era stata una piccola conquista e non vedevo l’ora di raccontarla a Marco. Su internet erano arrivati i primi social ed i primi gruppi: lui era sempre disponibile ed attivo nel rispondere ai messaggi, specie se si trattava di arrampicata o di salite sulle Grigne. Soprattutto in quel mese di Marzo tanto carico di neve. Come dimostrano oggi gli AsenPark o i più giovani tra i Gamma, aveva sempre una parola d’incoraggiamento ed approvazione se ti cimentavi nella riscorperta delle classiche o delle vie meno note. Tuttavia quel giorno sapevo che non avrei potuto scrivergli, almeno non subito. Era sul Bianco e tutti davamo ormai per scontato il suo trionfale ritorno. C’era stato quel famoso messaggio SMS: “Sono nel posto più bello del mondo”. Su Facebook poi era un susseguirsi di esultanza da parte di chi lo seguiva con binocolo dal rifugio. Avrei dovuto aspettare la fine dei festeggiamenti per sottoporgli la mia modesta salita. Purtroppo le cose andarono però diversamente. Quando i giornali pubblicarono le foto che aveva scattato tutti erano sgomenti: quell’impressionante roccia rossa, il famosissimo autoscatto sorridente nella tenda. Ce ne era poi una che mi inquietava particolarmente perchè nella mia ignoranza non ero in grado di capirla appieno: “Lo spit più alto d’Europa”. Marco Anghileri era uno che in 24 ore ripeteva in fila 6 Cassin oppure 5 Bonatti oppure 3 vie del Det, senza tirare in ballo Marmolada, Civetta, Agner, ecc… Per molti di noi, soprattutto brocchi, era un “moderno eroe classico”, l’esempio da seguire mentre dolorosamente si prendevano legnate sulle vie con più di 50 anni. Quello spit mi inquietò perchè, sempre nella mia ignoranza, mi parve di cattivo auspicio, fuori luogo. Tuttavia, in quei giorni tristi, non poteva apparirmi diversamente: il grande Bianco, forse per gelosia, aveva rubato alla più piccola Guerriera un’altro dei suoi campioni.
Non avevo pensato a quello spit fino all’altra sera, quando sotto mano mi è capitata una rivista della Biblioteca Canova datata 1993: carta stampata vecchia ormai più di un quarto di secolo. Era il numero 103 di ALP e la maggior parte degli articoli erano dedicati al Pilone Centrale de Freney. Vi erano le foto in bianco e nero ed i racconti, ormai celebri, di Giampiero Motti che narravano le vicende del pilone dagli anni 60 fino alla fine degli anni 70. Sulla rivista vi è poi un articolo di Marco Ferrari che riprende il racconto della “Commedia del Pilone Centrale” dal momento in cui l’aveva lasciato Motti fino alla propria contemporaneità: “Spit, Concatenamenti, solitarie, record: quattordici anni di vicende nello scenario colorato e sfolgorante degli anni ottanta”. Da ultimo alcune interviste ai protagonisti di quegli anni, tra cui anche Michel Piola, apritore della Jori Bardill.
Consapevole di come parlare dei caduti sia sempre doloroso, spero di fare cosa gradita trascrivendo questi articoli e “tramandandoli” alle nuove generazioni, soprattutto a quelle che da Marco Anghileri hanno tratto insegnamento ed ispirazione.
- IL PILONE CENTRALE
Attraverso il decennio dei cambiamenti - Intervista Michel Piola
Lo spit più alto d’Europa - Intervista Jean-Christophe Lafaille
Alpinismo come solitudine
IL PILONE CENTRALE
Attraverso il decennio dei cambiamenti
di Marco Ferrari (ALP – 1993)
Alla fine, dopo l’interminabile attesa, dopo la salita, quando tutto è diventato ormai ricordo, si capisce che la montagna non avrebbe valore se non ci fosse l’uomo a darle vita. «Le montagne hanno il valore dell’uomo che vi si misura: altrimenti esse rimangono soltanto dei mucchi di pietre». Questa frase, espressa con un indubbio alito di retorica, è stata scritta da Walter Bonatti prima di interrompere bruscamente una carriera alpinistica piena di colpi di scena, di tragedie, di successi, (medaglie d’oro consegnate dal presidente della Repubblica) ma anche, come sappiamo, da pesanti polemiche. Walter diede un taglio netto e improvviso alla sua attività, come se le montagne avessero ricevuto a sufficienza il segno del suo passaggio. Le sue salite, come lui stesso diceva, hanno dato un alone di personalità a quelle pareti del Monte Bianco. Il Pilone Centrale non sarebbe certo lo stesso se non fosse accaduta la sua vicenda: ancor oggi da quel tragico luglio 1961, il grande pilastro sud del Monte Bianco è avvolto da una strana ombra, una sorta di cupa tensione. E poi i ricordi che escono dalle righe dei libri di storia dell’alpinismo: il bivacco della morte, la ritirata dai Rochers Gruber, le immagini in bianco e nero che ritraggono Walter con gli occhi pieni di morte e il volto smunto dall’improvviso dimagrimento mentre si butta tra le braccia della sua donna e dice «ci siamo salvati soltanto noi: Gallieni, Mazeaud ed io, i soli che avevano un amore e una donna che li attendeva a casa». E rimase appunto quella frase straziante (che non tutti sanno), sentenziata in quel solenne momento l’epilogo di tutta la vicenda, prima delle ormai note polemiche che seguirono. Da quel primo atto della “commedia del Pilone Centrale” sono passati trentadue anni e il ricordo della tragedia è ancora vivo anche se in qualche modo è inevitabilmente un po’ invecchiato. Altri uomini hanno dato vita a questo strano pilastro di protogino arancione, altri successi e altre salite sono entrati negli annali di alpinismo, e purtroppo anche altre tragedie si sono ripetute, ricordiamo anche quella del milanese Quario, e quella del solitario torinese Roberto Calosso nell’88. In questo secondo articolo sul Pilone Centrale del Fréney completeremo la ricostruzione storica, iniziata nelle pagine precedenti da Gian Piero Motti con il testo ricavato dalla sua monografia dei “Piloni” apparsa su “Scandere 1979”. Dal settantanove a oggi è rimasto un buco di quattordici anni. Un tempo complesso che ha visto il passaggio di più generazioni di alpinisti le quali hanno anche maturato vicende di grande valore storico. Ma è giusto ricordarci che fare la storia non significa riempire il tempo soltanto con le vicende di “valore” e con le relative date; la storia, come sappiamo, non è fatta dagli avvenimenti ma dalle trasformazioni e dai contrasti che talvolta gli avvenimenti comportano. L’occhio della storia cade sui contrasti e sulle contrapposizioni e in fondo sorvola sulle imprese che ricalcano orme già esistenti. Come insisteva Motti, bisogna dare senso storico alla nostra critica. Fortunatamente per chi scrive, la “commedia del Pilone Centrale” è passata attraverso gli anni ottanta, un decennio (in alpinismo e non) pieno di grandi cambiamenti e contrasti. A proposito di “senso storico” lo stesso Motti scriveva nella parte conclusiva del suo saggio sui Piloni del Frèney: «Alle spalle di queste ultime realizzazioni vi sono una preparazione metodica costante, aggiunta ad una disinibizione psicologica che va al di là di ogni ostacolo. E’ impossibile dire se essi sono più forti di quelli di ieri. Costoro ereditano tutto il lavoro di quelli che li hanno preceduti, vivono in un momento storico estremamente favorevole alle chiarificazioni, alle disinibizioni e alle liberazioni dei tabù interiori; ricevono un’energia che gli altri non hanno nemmeno immaginato di possedere e certo impiegano bene i loro talenti. Chi si trova a percorrere l’ultimo scalino pensi a come abbia potuto giungervi e pensi a chi lo ha innalzato fino a tale altezza. Ma gli uomini sono ciechi, un po’ stupidi per definizione e, da sempre, vengono ingannati da ciò che appare: non riescono a penetrare oltre. Così oggi (1979 ndr) alcuni imbecilli ridicolizzano le imprese fantastiche di ieri, incantati e sedotti dagli sfolgoranti successi di oggi. È triste e anche un po’ amaro che l’uomo manchi sempre di senso storico nella sua critica». Eccoci dunque a parlare del Pilone nello scenario degli anni ottanta, nel grande decennio delle trasformazioni. Sulle fessure del granito a quattromila metri le scarpette di gomma liscia prendevano il posto dei pesanti scarponi di cuoio Galibier o Scarpa, sul fondoschiena dei nuovi alpinisti apparivano grossi sacchetti ripieni di magnesite bianca leggera come la neve. In città gli yuppie allungavano le code agli ingressi dei cinema davanti ai cartelloni di Wall Street. Sulle spiagge si faceva il tifo alle prime gare di off-shore. Era il decennio dell’apparire, del tutto in vendita, dello spettacolo enfatizzato, della settimana-corso di sopravvivenza, del craxismo e del suo illusorio benessere, di una parentesi di pace internazionale. In montagna tutto questo fervore esplose in uno dei periodi più fecondi della storia dell’alpinismo. A Bardonecchia nel 1985 le prime gare di arrampicata fanno nascere un nuovo sport, l’arrampicata sportiva; sul Bianco nel 1981 Boivin e Berhault inaugurano ufficialmente le corse e i concatenamenti salendo in successione la parete sud del Fou e subito dopo, trasferitisi con un deltaplano, la Ovest del Dru. Sempre in quegli anni i soliti francesi, con Boivin in testa, perfezionarono, fino a renderlo commercializzabile, un nuovo tipo di paracadute che permette di buttarsi giù dalle cime appena salite: era nato anche il parapendio. Ma fu l’avvento dello spit sulle grandi pareti alpine che interessò da subito il Pilone: in quell’anno 1982 si iniziò la chiodatura sistematica di decine e decine di itinerari attrezzati con gli spit e con l’intento di facilitare le ripetizioni (ciò che fin da allora si cercava di evitare per fissare il “valore” dell’impresa anche nel futuro). Era quindi entrata una nuova concezione: aprire vie con l’intento di facilitare le ripetizioni. Proprio nel 1982 Michel Piola non si fece sfuggire l’occasione di tracciare un suo itinerario su quella magica via di salita verso la cima bianca d’Europa. Ventidue anni dopo la salita di Bonington e Whillans, uno svizzero, che diventerà il maggiore interprete di questa attività, piantò lo spit che è rimasto tutt’oggi il più alto del continente. Una via di concezione moderna che arriva alla soglia del 6c corre dunque, dal 12 agosto 1982, sulla sinistra della classica del ‘61; una settimana dopo quella soglia (di 6c) fu superata dalla stessa cordata Piola-Steiner sul Grand Capucin, a poche centinaia di metri in linea d’aria dalla Chandelle, con la via Le voyage selon Gulliver divenuta in seguito una super-classica tra le vie moderne. Sul Pilone, l’itinerario chiamato da prima solo Direttissima poi Jòri Bardill rimase in ogni caso la nuova grande via di quel 1982. Ma come abbiamo detto gli anni stavano maturando sempre più per accogliere un alpinismo che oggi potremmo definire “sportivo”: nel 1985 nasce la rivista Vertical con la redazione a Chamonix, in contatto diretto con gli avvenimenti più importanti. Contemporaneamente nasce ALP, la rivista partner italiana. Carta patinata, foto a colori a tutta pagina vengono fatte passare come una sorta di vetrina dell’alpinismo fuori dal bar Choucas a Chamonix o sulla funivia del rifugio Torino che porta gli arrampicatori sotto i satelliti per ripetere, in giornata, la via Bonatti, o la più moderna O sole mio al Gran Cap. Il 1986 è il bicentenario della salita del Monte Bianco, l’88 il cinquantenario della Walker alle Grandes Jorasses, i nuovi nomi dell’alpinismo così detto di “punta” sono Christophe Profit, Eric Escoffier, Patrick Gabarrou, Thierry Renault, come abbiamo detto Boivin e nelle aperture di vie a spit Piola, Steiner, Vogler. Gli elicotteri accompagnano i “campioni” alla base delle pareti come le guide alla base del nostro Pilone; vedi il corso di formazione valdostano per una rapida ripetizione estiva della via di Bonington. A tutt’oggi le ripetizioni di guide con clienti sulla via classica sono rimaste ben poche, al massimo circa cinque a stagione; per la cronaca sono tutte francesi: nella celebre Società delle Guide di Courmayeur se ne contano ancora poche disponibili a portare clienti sul Pilone. Alcuni recuperi per mezzo dell’elicottero con il cliente “scoppiato”, ricordano quanto sia difficile per una guida lavorare sul Pilone. Sono gli anni dei concatenamenti in giornata: Walker e Croz sulla Nord delle Jorasses, poi il Dru per il Pilier Bonatti e per l’Americana, una sequenza di diverse combinazioni fantasiose all’insegna della velocità. E in questo contesto è inevitabile arrivare al logico ma straordinario concatenamento dei piloni del Fréney. Profit sale nell’estate ‘84: Nord del Pilier d’ Angle + Pilone Centrale via Bardill + via classica + cresta dell’Innominata con Thierry Renault in 22 ore. Ma più avanti in stagione sempre Profit, con Dominique Radigue, farà il più incredibile concatenamento di quella stagione: tutti i quattro Piloni del Fréney senza fermarsi. Pilier Nord o Gervasutti + Pilier Dérobé + Pilone Centrale via Bardill + Pilier Sud in 32 ore. La suggestione collettiva per quell’angolo “himalaiano” del Bianco e l’immagine mito del Pilone vengono così inevitabilmente incrinate. Anche se una certa parte della collettività degli alpinisti stenta a credere alla veridicità di queste imprese o per lo meno tende a ignorarle, sembra che gli enchaînement e le prestazioni a tempo record snaturino l’idea stessa di alpinismo. Lo stesso Bonatti commenterà con toni di disprezzo questo tipo di alpinismo “sportivo”. Intanto le ripetizioni della via di Bonington aumentano di anno in anno. Alpinisti da tutto il mondo si sparpagliano sulle Alpi in cerca delle più prestigiose ripetizioni; in quegli anni gli obiettivi più ambiti sono la Walker, l’ Americana ai Dru, la Nord dell’Eiger, la Nord del Civetta e non da ultima la classica del Pilone Centrale (di tutti questi grandi itinerari si perderà inevitabilmente presto il conto delle ripetizioni estive).
In inverno (stagione ‘89-’90) invece si registra anche la ripetizione della Bardill da parte di Alain Ghersen e Remy Escoffier, è una salita senza storia: rimane un avvenimento circoscritto a quella stagione invernale ma non aggiunge nessun elemento veramente innovativo alla “commedia del Pilone”. E il sipario si chiude così su un decennio di grandi cambiamenti; chi osserva attentamente lo scenario alpinistico capisce che dopo i concatenamenti solitari invernali di Profit sulle tre Nord (Eiger, Jorasses, Cervino) non c’è più niente di nuovo da dire, sembra (usando l’espressione alla Motti) che «non esistano più gradini da aggiungere alla scala» e che l’avanguardia in alpinismo sia ormai esclusivamente nei numeri, nei record, nella velocità e nei tempi delle ascensioni, già per altro ridotti al minimo. Ma nei primi anni novanta avviene una sorta di reazione: il cronometro e le tabelle dei tempi di velocità sembrano rimanere (tranne alcuni casi sporadici, vedi Berhault ‘92 in giornata sul Trittico del Bianco: Noire, Gugliermina, Pilone), un fenomeno circoscritto alle ripetizioni e al decennio passato. Quando il 15 agosto 1991 Jean-Christophe Lafaille attacca il Grand Pilier d’ Angle e poi il Pilone del Frèéney aprendo, da solo, due vie in successione in ben cinque giorni di scalata, sembra voler rievocare uno stile più “classico”, alla Nicolas Jager per intenderci che nel 1975 in due giorni e mezzo ripeté la Bonatti-Gobbi al Pilier d’ Angle e la classica al Pilone: o ad esempio le lunghe permanenze solitarie di Renato Casarotto che nel febbraio ‘92 ripeté in due settimane di solitudine completa la Trilogia del Bianco. Renato attaccava la classica al Pilone in severe condizioni invernali dopo undici giorni di arrampicata. Nel ‘91, la piccola guida di Gap porta a termine un’impresa eccezionale interessando, nell’ultima parte del suo viaggio solitario, il Pilone con l’apertura di L’écume des jours, un itinerario valutato 6c, A2, il terzo e l’ultimo a essere aperto sulla nostra montagna.
I grandi exploit si sono sovvrapposti uno all’altro al punto da farci inevitabilmente perdere il loro reale valore storico. Ma ritornando a un alpinismo più comune, quante sono ogni estate le ripetizioni “normali” della via classica? Dopo alcune ricerche ci risulta circa un’ottantina nel 1991, ma è difficile fare una stima precisa anche perché non esiste un solo punto d’approccio alla parete; il bivacco Eccles, il bivacco Ghiglione e quello della Fourche sono tre diversi punti di appoggio indipendenti tra loro che inevitabilmente fanno disperdere le tracce e impediscono un reale censimento. La scorsa estate, invece è certo, le ripetizioni sono state pochissime, anche perché le condizioni della parete sono diventate accettabili solo a fine stagione. Dunque, niente punti di osservazione privilegiati sul pilastro del Fréney: solamente nelle belle giornate di alta pressione, dal rifugio Monzino si può osservare quanti riescono a uscire sulla cresta di Brouillard. Tenere il conto però oramai non interessa più a nessuno, forse nemmeno ai redattori delle riviste specializzate.
Bonatti diceva che sono gli uomini a fare le montagne: oggi come abbiamo visto, su questo pilastro di granito, non è rimasta impressa solo l’ombra sinistra dell’avventura di quei sette alpinisti nel tempestoso luglio del 1961: innumerevoli ripetizioni, innumerevoli successi e prestazioni di alto livello hanno in qualche modo sbiadito quel ricordo di morte che avvolgeva il Pilone Centrale. In questi ultimi anni, grazie a una dimensione più disinibita nei confronti della montagna, siamo entrati in un’era nuova, in cui è veramente facile credere nelle proprie potenzialità di alpinisti: le riviste con gli elenchi strabilianti di successi dei “campioni”, gli allenamenti scientifici alla portata di tutti, la trave sopra la porta del bagno che promette la salita del 7b e delle grandi pareti senza il minimo sforzo. Tutto questo sfatare il “mistero” delle montagne facilita l’approccio alle pareti sgravando in un certo modo il carico psicologico e rendendo le grandi salite classiche alla portata di molti. Ma siamo sicuri che tutte queste forti certezze non si rivelino poi solamente illusione? Non può accadere che la realtà sia, al momento di partire, ben diversa da come la si pensava? Quando, in quelle notti di pace apparente, prima della salita, chiusi nei bivacchi dell’Eccles (o Ghiglione) si attaccano addosso i fantasmi dell’incertezza, allora tutto prende una luce diversa, allora si capisce che le proprie sicurezze non erano poi così inscalfibili. Nella notte di attesa si ritorna a sperare in quella sottile possibilità dell’improvviso arrivo del brutto tempo, come unica buona scusa per tenerci lontano da quel pilastro (in fondo a guardarlo bene così cupo). Invece al mattino aprendo la porta di legno foderata di lamiera del bivacco, un’altra alba chiara metterà fine alle incertezze; non ci sarà più tempo per pensare a nulla. Improvvisamente un precipitare di cose: tutto di fretta come se la salita fosse l’unica fuga per scappare dalle proprie paure. Via di corsa, la colazione, prepararsi, mettersi i ramponi, l’avvicinamento; l’unico scopo è arrivare presto in cima e magari dimostrare al compagno un po’ di sicurezza. Di sera, quando tutto il mondo sarà sotto i piedi, finalmente in cima alla Chandelle con le prime luci che cadono ad accendere Courmayeur, 3500 metri più in basso, allora si capirà che la “commedia del Pilone” era tutta solo un incantesimo, che il “grande mito” della scalata più alta d’ Europa era solo un’invenzione, ma un po’ è stato anche bello credergli lo stesso perché è proprio quell’illusione che è parte fondamentale di questo tipo di alpinismo.
Gian Piero Motti aveva perso la sua gara con il “mito del Pilone”, in quella sua notte di attesa avevano vinto le paure: il mattino preferì ritirarsi sulla cresta di Peuterey. Motti, come tanti altri, faceva dell’alpinismo anche per arricchire la sua conoscenza e affinare la sua ricettività verso se stesso; rinunciare al Pilone non significa che non abbia potuto afferrare il cuore di questa montagna di granito. Abbiamo pensato di passare attraverso i suoi scritti anche perché affacciarsi alla storia da una prospettiva diversa dal presente ci sembrava un metodo più imparziale, che in qualche modo rispettasse un certo senso storico. La sua penna e la sua sensibilità ci hanno trasmesso oggi quel segmento di storia lungo diciotto anni e tutto ciò che quell’ammasso di rocce «reso vivo dagli uomini» gli ha trasmesso.
Michel Piola
LO SPIT PIU’ ALTO D’EUROPA
di Marco Ferrari (ALP – 1993)
Entriamo nella casa dei suoceri di Michel Piola. Lo schiamazzo di una folta squadra di bambini che corre su e giù per le scale ci fa credere di aver sbagliato indirizzo e di essere entrati in un kinderheim estivo. Siamo a Leisyn nel Vallese svizzero, il nostro ospite è Piola, il precursore delle “spit-climbing” in montagna, mentre tutti quei bambini sono i suoi e dei suoi parenti. Al frastuono dei ragazzi ci deve essere abituato visto che come lavoro fa l’istruttore di ginnastica a tempo pieno. Le sue vie aperte in ottica moderna (dal basso, con il trapano e con forte uso di chiodi a espansione) sono innumerevoli. Solo l’anno scorso ha aperto 105 itinerari e ha piantato 1500 spit, per un totale di 350 lunghezze di corda. Nell’estate ‘93 sulla parete sud delle Petites Jorasses, in occasione dell’apertura della via Pantagruel ha scavato due appigli per evitare un passo in artificiale. Eppure anche Piola ha una sua etica ben definita: rispetto delle vie storiche e apertura rigorosamente dal basso. In quella famosa estate del 1982 -come abbiamo detto- diede il via alla “rivoluzione” e a quel nuovo stile di apertura (che comprende la nuova via Jòri Bardill sul Pilone). Il primo spit lo piantò nel 1980 sull’ Aiguille des Pélerins ma lui assicura che il primo chiodo a espansione della storia del Monte Bianco fu piantato non da lui ma da Gaston Rebuffat nel 1956 sulla sud dell’ Aiguille du Midi. «Dopo un primo tentativo, sbarrato da una placca non fessurata, Gaston andò dagli alpinisti ginevrini (che avevano una certa esperienza in fatto di chiodi a espansione che usavano già allora sul calcare di casa) a informarsi su come piantare il chiodo che gli permettesse di risolvere il suo problema». Ora su quella placca a 3700 metri di quota è rimasto solo un piccolo forellino (senza chiodo) che solleva a Piola la responsabilità di aver forato per primo (non per progressione artificiale, ma solo come punto di sicurezza) la roccia del Bianco.
Ora Michel ha trentacinque anni, molti capelli bianchi in testa (per la verità un po’ precoci), più di un decennio di attività come apritore che lo ha portato su tutte le montagne granitiche più importanti del pianeta, ha compilato circa cinque guide del Bianco sulle quali ha descritto il Pilone come una montagna “mitica” e di grande impegno; in realtà a voce userà aggettivi più pacati.«Bene Michel, raccontaci la tua salita al Pilone». «La Direttissima al Pilone rientra nel contesto di quelle salite “esplorative” dei primi anni, oggi apro di più su pareti minori (anche perché sono le uniche che gli sono rimaste a disposizione). Nel 1982 avevo arrampicato parecchio con Steiner, con lui avevo un affiatamento particolare. Pierre-Alain era molto forte su terreno misto e su ghiaccio, io di più su roccia. Avevo conosciuto Steiner al corso guida, io ero una giovane guida e lui era stato il mio istruttore. Aveva un’esperienza eccezionale (Nord delle Jorasses invernale), mi ha insegnato molte cose. Con noi due, in quell’occasione si era unito Jòri Bardill al quale abbiamo voluto dedicare la via: due anni dopo è morto anch’egli in montagna. Quei primi giorni di agosto il pilone non appariva nelle condizioni migliori. Una grande quantità di neve riempiva le terrazze ma noi eravamo decisi lo stesso a portare a buon fine il nostro obiettivo. A dire il vero il Pilone da sotto non ha un aspetto così feroce, anzi la soluzione del problema non ci sembrava tra le più ardue. Avevamo deciso di scambiarci il comando della cordata giorno dopo giorno. Il primo è toccato a Steiner poi a me e in fine la parte della Chandelle l’ha portata a termine Bardill. Il tempo per fortuna è stato dalla nostra e siamo arrivati in cima al tramonto del terzo giorno, avevamo piantato lo spit più alto d’Europa ed eravamo riusciti ad aprire una via sul mitico Pilone Centrale. Dopotutto non ci sembrava di aver fatto nulla di eccezionale». «Sei mai tornato sul Pilone?» «Sono tornato almeno altre tre volte per aprire qualcosa ma il tempo me lo ha sempre impedito». «Pensi ci sia ancora spazio per una via nuova sulla Chandelle?» «Sì, a sinistra senz’altro ma con qualche lunghezza in artificiale. A destra c’è una splendida fessura che Lafaille (nel 1991) forse non ha voluto aprire perché aveva fretta di uscire sulla cima». Lo stesso Lafaille ci darà una spiegazione diversa riguardo alla sua scelta di non toccare quella fessura. Per quanto riguarda Piola staremo ad aspettare le sue ultime realizzazioni sui Piloni, ma forse quelle salite ormai non faranno più storia.
Jean-Christhope LaFaille
ALPINISMO COME SOLITUDINE
di Marco Ferrari (ALP – 1993)
La piccola guida di Gap non riesce a distogliere lo sguardo dalla sua montagna in questa giornata di sole a Chamonix, la prima dopo un lungo periodo di bassa pressione. I suoi occhi fanno impressione, rimangono come incantati a guardare lassù-dove fra qualche ora porterà i suoi allievi guida dell’Ensa per un ultimo esame prima di rilasciargli il patentino. Il suo sguardo, i suoi occhi un po’ timidi, sono inebriati e ubriachi da chissà quali orizzonti. Ma come è possibile parlare di alpinismo romantico in questo decennio di confusione e di conformismo!? Con lui non abbiamo avuto il coraggio, anche se forse sarebbe stata la persona più adatta per parlare di cose che vanno oltre il grado e i tempi record di salita. Ed è significativo che la prima cosa che gli viene in mente di quella via nuova sul Pilone, è la notte trascorsa sotto la Chandelle. «La volta del cielo era tutta tempestate dalle stelle. A un certo momento mi è parso di vedere le mie montagne, il massiccio dell’Oisans, in quel momento, in quella solitudine immensa mi sono sentito ancora a casa tra le mie montagne e quelle del mondo». Il suo alpinismo è soprattutto solitudine, così sulla Nord delle Jorasses in inverno lungo una via nuova, così sull’8a+ di Réve de Gosse slegato in una palestra vicino a casa. Tre vie in invernale solitaria al Grand Capucin (Bonatti, Svizzeri, Diretta dei capucines con nuova variante di uscita), poi ancora l’ Americana alla Sud del Fou e ancora diverse altre sui Satelliti del Tacul sempre da solo e in inverno. Per la piccola guida di Gap le montagne sono ancora più alte, per la sua statura modestissima i sacchi da portare non sono più leggeri di quelli dei suoi colleghi, anzi sono alti come lui. Per questo ventottesimo anno della sua vita, Jean-Christophe ha fissato ancora un altro viaggio solitario su una via nuova lungo una parete del Cho Oyu, 8201 m. Ritornerà dunque in questa stagione post monsonica dopo la terribile avventura subita l’anno scorso sulla Sud dell’ Annapurna, nella quale perse la vita Pierre Beghin e a lui toccò una ritirata solitaria di tre giorni con un braccio fratturato. «Sono partito (11 agosto 1991) in completa solitudine senza elicottero e senza radio. Ho attaccato la parete est del Grand Pilier d’ Angle che già conoscevo». Era già stato su quella parete in occasione della solitaria della via Divine Providence, il primo giorno si è portato sotto lo “Scudo”. «Durante il secondo giorno c’è stata una brutta sbandata: su un tiro di artificiale mi cede un chiodo. Sono precipitato e ne ho strappati altri due. Per fortuna niente di grave, ho proseguito poi per altri tiri di A4. Il 14 agosto attacco il Pilone. La prima parte è già abbastanza impegnativa: 6c, A2. Il giorno dopo ancora una lunghezza di 6c mi conduce alla cima. Sono le cinque del pomeriggio e mi ricordo che avevo una specie di appuntamento con l’elicottero dei fotografi. Senza la radio nessuno mi ha potuto avvertire che per quella sera non sarebbe potuto arrivare, così mi sono messo a prendere il sole fino al tramonto, poi ho affrontato l’ultimo bivacco». «Come mai non hai voluto salire quella splendida fessura che si trova poco più a destra sulla Chandelle?» «Sì, ho visto quella bellissima fessura che dici, ma in realtà si tratta di una fessura cieca, non proteggibile solo con i friend. Ho quindi pensato di rinunciare piuttosto di piantare uno spit su una montagna così carica di storia». «Tu che hai portato a questo punto i livelli dell’alpinismo proprio in quella zona del Bianco, che tu definisci himalaiana, e così carica di storia, che atteggiamento hai nei confronti del passato?» «Mi sento come gli alpinisti del passato, non c’è differenza perché ho lo spirito di costoro».«Tu sei l’unica persona ad aver percorso tutte e tre le vie del Pilone tranne pochi tiri della Bardill. Quale ti sembra la più bella?» «Senzaltro la classica. La Jòri Bardill non mi è piaciuta, è troppo forzata e poi non sono interessato a percorrere vie con gli spit». Questa affermazione suona un po’ strana se si pensa che proviene da una guida francese, alle quali siamo abituati attribuire una certa leggerezza nelle questioni etiche. Eppure lui è un loro degno rappresentante visto che tiene i corsi di formazione professionale all’ Ensa. Durante questa estate di tempo inclemente rimangono pochi giorni per le salite, mentre parliamo il suo sguardo è ancora rivolto alla montagna. Presto ritornerà sulle pareti, dopo questa parentesi con il corso guida, Jean-Christophe si troverà ancora da solo, in piena autonomia senza radio, senza chiodi a espansione per un progetto proprio nella zona dei Piloni. Intanto a Chamonix circola la voce che c’è qualcuno che sta mettendo della resina sika sulla Ovest dei Dru e Lafaille ci ricorda che sulla classica Americana al Fou si scende in doppia sulle soste attrezzate a spit. Mentre sul Pilone brilla quello più alto d’Europa.
Addendum da Wikipedia: Nel dicembre 2006 Lafaill, che aveva salito 11 dei 14 ottomila, intraprese una solitaria invernale sul Makalu (8462 m). Il mattino del 26 si era accampato su una piccola cengia, circa 1000 metri sotto la vetta e con il telefono satellitare disse alla moglie che avrebbe provato a raggiungere la vetta quel giorno. Da quel momento non ci furono più sue notizie. Da solo e in inverno, senza nessun alpinista sufficientemente acclimatato per raggiungere il suo ultimo campo, non c’erano possibilità di soccorso. Il team del campo base perse le speranze di un suo ritorno dopo una settimana, e in seguito un elicottero cercò invano suoi segni sulla montagna. Il suo corpo non è stato ritrovato e i dettagli dell’incidente rimangono sconosciuti. Ha lasciato la moglie Katia e due figli.
«Trovo affascinante che sul nostro pianeta ci siano ancora luoghi dove nessuna tecnologia può salvarti, dove le persone sono ridotte alla parte più essenziale di sé. Questo spazio naturale crea situazioni impegnative che possono portare alla sofferenza e alla morte, ma anche generare ricchezza interiore. In definitiva, non c’è modo di conciliare queste contraddizioni. Tutto quello che posso fare è viverne ai margini, nel confine sottile tra la gioia e l’orrore. Tutto sulla terra è un atto di equilibrio.» Jean-Christophe Lafaille