La situazione è surreale: ho bevuto una fila di birre a stomaco vuoto e sono fermo ad un semaforo, aggrappato al volante della mia scassata subaru. La mezza notte è appena passata ed un fitta pioggia distorce e confonde luci ed ombre della città. Davanti a me, immobile nella pioggia, una minigonna rossa fuoco e due infinite gambe nude reggono orgogliose e salde un motorino nelle intemperie. Riccioli biondi dal casco scivolano sulle spalle accompagnando lo scorrere dell’acquazzone. Piego la testa di lato e per un secondo mi scuoto dai miei pensieri: “Figa. Figa bagnata. Letteralmente…”. Poi il rosso sfugge ed il verde brilla nei riflessi. L’amazzone, con caparbia tenacia, riparte per la sua strada ed io faccio altrettanto lasciando che la mia mente si disperda ancora: giorni fa ero in palestra… sì, vado in palestra, e lo faccio per tre motivi: primo, sono un vecchio spompato; secondo, è letteralmente davanti all’ufficio in cui passo 12 ore al giorno; terzo la gestisce un veterano del piolet traction con cui ci siamo subito intesi: “Negli ultimi 50 anni ho visto tutte le ultime generazioni di arrampicatori. Oggi sono forti, professionisti, campioni. Ma se prendi uno della vecchia scuola, tipo un Oppio, capisci subito che erano di un altra pasta”. Bhe… ero in palestra ed all’improvviso un ragazzo mi si avvicina: “Tu sei Birillo?”. Alle pareti ci sono le foto di Cassin e quella semplice domanda poteva essere l’inizio di un significativo guaio. “Dipende. Chi lo chiede?” “Ci siamo incontrati nel 2015 ai Corni per il simposio di arrampicata. Ci hai fatto le foto mentre arrampicavamo nel Diedro dell’Oro al Corno Orientale”. Ho sorriso: 100% friendly per fortuna. Abbiamo chiacchierato del più e del meno, del Moregallo e dell’arrampicata. Poi è apparsa un’increspatura, un’ombra di tristezza quasi tattile: “Non so se lo sai, ma giovedì a Calolziocorte fanno una serata per ricordare Giovanni. Era un mio amico. E’ salito sul Cerro Torre ma è stato travolto da una valanga in Grignetta”. No, non ero pronto. Non ero pronto per una cosa del genere. Certo che sapevo della serata, certo che conosco la storia di Charlie. Quello che non sapevo, per tanti motivi, era se ci sarei andato. Al suo funerale ero rimasto in disparte, lontano da tutti, non ero riuscito a parlare con nessuno. Senza rendermene conto, senza una volontà consapevole, allungo la mano e stringo la sua in un’inaspettato gesto di cordoglio. Sono finalmente le mie condoglianze? Così continuo: “Se vuoi possiamo trovarci qui in palestra ed andarci insieme…”. E così era successo, così mi ero ritrovato a Calolziocorte, in una sala che iniziava a gremirsi. Eravamo in anticipo, ma ci siamo attardati al bar chiacchierando dietro due birrette mentre ogni posto a sedere viene occupato. Il Presidente del Cai e “Rochi” danno inizio alla serata: sul palco salgono i protagonisti del presente e del passato. Le luci si spengono e scorre il video-racconto della spedizione. Sono in piedi accanto ad una delle porte laterali della sala. Nel video il vento patagonico scuote tende ed alpinisti mentre una brezza sempre più intensa scende alle mie spalla delle montagne. “Climbing in the wind”. Il vento aumenta e la tenda del teatro si gonfia come una vela avvolgendomi la schiena: spinge, si scuote, mi agita. Il vento racconta la storia sullo schermo, fino al suo tragico epilogo: Charlie nel vento. Allargo le braccia: mi immergo nel momento, mi abbandono al momento. Il vento ora soffia, insorge, ruggisce intenso mentre al buio brilla invisibile un inspiegabile sorriso sul mio viso. Poi, dal nulla, una donna si avvicina: “Possiamo chiudere la porta?”. La guardo sorpreso mentre la parafrasi dei miei pensieri scorre nei miei occhi: “Che cazzo vieni a vedere la Patagonia se ti da fastidio il vento?”. Ma nella sala non è la sola che inizia ad agitarsi. Non mi oppongo, faccio semplicemente un passo indietro ed esco sul portico, all’esterno dell’auditorium, mentre chiudono la porta a vetri davanti a me. Il vento rinforza e trascina con sé i lampi e la pioggia. Le porte si chiudono mentre la gente, assiepata sotto il portico, fugge e si accalca nella sala. All’improvviso, nel buio tra le colonne, ci ritroviamo soli in due: io ed il giovane compagno di cordata di Charlie. Ci salutiamo. Ci siamo già scritti in passato, ma non abbiamo mai avuto occasione di affrontare la questione di persona. Per un istante restiamo in silenzio, nessuno dei due è bravo in queste cose. Poi torna alla mia mente l’ultima chiacchierata via internet con Giovanni. “Non ci sono più gli alpinisti di una volta…” mi aveva scritto. “…vuol dire che ne costruiremo di nuovi” gli avevo risposto con la mia solita goliardica e complice arroganza. Ci siamo salutati scherzando. Davanti a me ora ho un giovane ragazzo, un giovane uomo, a cui la montagna ha sottratto un prezioso amico. “Hey, tienimi il posto che torno subito!” Mi fiondo al bar e riappaio con un paio di birre. In un improbabile solitudine osserviamo le immagini attraverso la porta a vetri: ora possiamo parlare, ora possiamo brindare, ora possiamo lasciar scorrere. “…entrare nei Gamma era il nostro sogno, purtroppo solo uno di noi due c’è riuscito”. La sua tristezza è una piccola cupa realtà in un momento che dovrebbe essere di gioia. Tiro un fiato di birra e con la bottiglia indico sghignazzando la Patagonia che brilla nella sala: “Amico mio, tu avrai anche preso la patacca… ma lui si è preso il Torre: devi così darti da fare sei vuoi eguagliarlo!”. Anche lui ora sorride, orgoglioso per l’impresa compiuta dal suo amico. Continuiamo a chiacchierare, sempre più sciolti. Nella mia testa scorrono però altri nomi, altri volti. Ancora una volta sono sorpreso dalla straordinaria forza dei Gamma: grandi talenti, grandi imprese, grandi perdite. Prendere così tanti colpi e restare saldi, continuare e continuare nel modo più difficile ma allo stesso tempo più semplice, genuino. Un grande scuola. La pioggia ora si placa un po’ ed il caldo all’interno della sala riapre le porte: torniamo al mondo in un clamore di applausi. Un minuto di silenzio in ricordo di Giovanni e qualche domanda dal pubblico. Qualcuno si alza e chiede come può un genitore, davanti alla tragedia, incoraggiare il proprio figlio all’alpinismo. Non so perchè abbia fatto una simile domanda, non mi è chiaro se gli interessi la risposta o semplicemente alzarsi in piedi. Rochi ed il Panz abbozzano qualcosa senza troppa convinzione. La domanda forse appare sciocca, ma è importante la ricerca che scatena, specie se hai una bimba di tre mesi, specie se è la figlia del nostromo. “Tutti dobbiamo morire: le montagne, per chi impara ad ascoltare, insegnano a vivere con dignità”. Charlie era nel soccorso alpino, Charlie è salito in cima al “Paracarro”, Charlie è stato tradito dalla “Sentinella”. Credo che Charlie, nel vento, abbia già iniziato a “costruire” i nuovi alpinisti.
Butta un occhio su noi scarasoni…
Davide “Birillo” Valsecchi