“The climb is going where no man has gone before” Questa frase, pronunciata dal leggendario Capitano Kirk interpretato dallo storico William Shatner, mi ronzava nella testa sotto forma di un buffo video musicale. “Andare là dove nessun uomo è mai stato prima”: questo era il motto di StarTrek, una scheggia d’infanzia davanti alla televisione aspettando l’ora di cena. Forse anche per questo il Moregallo, con i suoi grandi spazi ancora sconosciuti, è per me la grande frontiera, il confine oltre cui spingersi.
Da anni, con una birra in mano al Rapanui, sognavo ad occhi aperti osservando la grande parete Nord e il suo “zoccolo” verde: una muraglia verticale di roccia infida ed erba, un dedalo, un rebus da risolvere. Solo la via “Gioventù 77” si era avvicinata zoccolo rimontando però sullo spigolo della parete Nord. Io invece volevo arrivare lassù, sopra lo zoccolo dove si innalza la seconda grande parete Nord, dove la montagna sembra prendere respiro arrestando il proprio impeto in un piccolo pianoro verde.
Quella roccia fragile, spazzata dall’acqua ed immersa nella vegetazione, aveva tenuto lontano tutti, anche i “grandi” che hanno conquistato la Nord. Serviva scaltrezza e metodo per fare ciò che nessuno ha mai (ragionevolmente) fatto. Per questo la mia mente vagava in quel mondo verticale che ho catturato in mille foto, in mille diverse inquadrature.
Il grande zoccolo è attraversato da due evidenti canali che lo attraversano in obliquo raccogliendo l’acqua che precipita dall’alto. Il primo, quello più basso, scende quasi tutta la lunghezza dello zoccolo. Il secondo, il più alto, lo attraversa più di taglio, quasi nascosto osservandolo dalla base, e precipita verticale in un salto ciclopico quando tocca i margini della grande parete Nord. Bal basso quel canale sembrava irraggiungibile, protetto da un’invincibile cascata strapiombante al cui centro una nera cavità osserva minacciosa, il grande occhio.
Ma io sono un pessimo arrampicatore e questo ha reso la mia mente allenata alle soluzioni alternative. Spingendomi alla base del grande canale avevo scoperto il “Trucco” con cui tentare di ingannare il gigante. Alla base della cascata una rampa erbosa si innalza su uno sperone di roccia, qui una spaccatura, una piccola e bassa grotta taglia la parete raggiungendo la rampa erbosa che obliqua risale fino alla sommità della cascata. Una mossa a cavatappi dal sapore speleo per raggiungere il grande canale. Ero già stato in quel punto, avevo tentato il passo verso la rampa in solitaria ma mi ero arreso davanti all’evidenza. Quello è un viaggio senza ritorno, superata la grotta si può solo uscire seicento metri più in alto, quando finisce la montagna: niente che potessi affrontare da solo.
I sogni sembravano coprirsi di polvere finché Mattia non se ne esce con una cosa delle sue “Facciamo la via dei Panda?”, un’altra storica ed irripetuta via del Moregallo oltre “il grande buio” nel cuore della Nord. “Naaa… se dobbiamo metterci nei guai scegliamo noi la nostra strada, andiamo dove nessuno è mai stato prima!”.
Durante la notte un violento temporale aveva investito il lago e le sue montagne. Fulmini, vento, ed acqua a secchiate: la mattina, seduto su un muretto aspettando Mattia, osservavo sconsolato le grande pozzanghere sull’asfalto. “Oggi non è giornata”. Mattia, binocolo alla mano, invece se la ride: “Ma no, vedrai che asciuga”. Sappiamo entrambi che non è vero, ma ora non c’è modo di arrestare ciò che ho messo in moto.
Due corde da 60, vasto assortimento di friend, fettucce e cordini in abbondanza, quindici chiodi, compresi i chiodoni ad u ormai fuori produzione. Completano l’equipaggiamento due fittoni da 40 cm realizzati con i pioli di una scala in alluminio e due picozze da ghiaccio, qualora l’arma bianca si riveli l’ultima possibilità nel corpo a corpo contro i prati verticali.
“Fai le cose difficili quando sono facili, e inizia le grandi cose quando sono piccole. Un viaggio di mille miglia deve iniziare con un singolo passo. (Lao Tzu)” Risaliamo la piccola rampa erbosa e, legati, ci sdraiamo strisciando nella stretta grotta raggiungendo la base della rampa erbosa. Il viaggio ha inizio. Due tiri da 30 e siamo in cima al canale e, con un passo piuttosto ardito, ci infiliamo al suo interno dove una grossa clessidra sembra accoglierci come solida sosta.
Ma il canale non è pronto a concedersi: grandi cascate sbarrano la strada costringendoci ad aggirarle sui lati quando affrontarle frontalmente non è possibile. Il nostro viaggio è scandito dal suono del martello sui chiodi, chiodi buoni su cui però non cadere, chiodi che quando non escono a mano cedono con qualche martellata. Indietro non si torna, l’unica possibilità è verso l’alto, attraverso l’erba, le cascate, le placche compatte e bagnate, la roccia marcia. Indietro non si torna.
L’esplorazione diventa un viaggio totale, un’immersione completa. Mi sforzo di scattare qualche foto, di documentare, ma fatico a contare i tiri, tutto quello che importa è salire, superare il tiro, scoprire quello successivo, lavorare bene, lavorare in fretta, non sbagliare. Mattia, come un trattore guida la nostra cordata, mentre io, immobile nelle silenziose angosce del secondo, manovro le corde studiando la situazione.
Verso mezzo giorno ci sediamo a mangiare un po’ di frutta secca. Sono ormai tre ore che affrontiamo il canale ma ancora non cede, prima o poi dovrebbe abbattersi, perdere inclinazione, ma i tiri si fanno sempre più impegnativi ed intensi. Ogni mia previsione è sovvertita e distorta: il Moregallo è la montagna dei grandi inganni, dove le prospettive vengono puntualmente imbrogliate. Con un avversario tanto temibile nessuno stratega può spuntarla senza uno slancio di coraggio. Come disse qualcuno “Il Moregallo non ti regala niente”.
Ripartiamo, un tiro alla volta, mentre la nostra determinazione assume le sfumature della rassegnazione sfiorando l’autoironia. Su un traverso, dove la roccia è il trionfo dell’inconsistenza, Mattia si diverte a sfottermi: “Devi fonderti con il marcio! ..stai li che ti faccio una foto!”. Ho i piedi su dei detriti e le mie prese ballano verso l’alto, se piombo faccio cinque metri di pendolo nel canale, eppure riesce a rubarmi un sorriso anche nel momento di massima concentrazione.
Il tiro successivo è un’altra rogna, poi qualcosa cambia. Il canale sembra abbattersi e la corda scorre veloce per sessanta metri prima di chiamare la sosta. Forse si esce, forse il canale è finito! Ma quando arrivo alla sosta, quasi camminando, mi trovo davanti il nuovo ostacolo: una grande cascata che sembra chiudere la testa del canale. Mattia parte, pianta una fila di chiodi, nessuno su cui sia possibile azzerare, si gira, si torce in opposizione, aggrappato come può e finalmente supera la cascata. Quando lo raggiungo in sosta sono le quattro e mezza, siamo stati nel canale quasi sette ore e mezza ma ora sembra sembra concluso e lo scenario attorno a noi cambia radicalmente.
Siamo alla “Piazza grande”, ci aggiriamo quasi spaesati nel centro del mondo ignoto, nel punto in cui tutte le linee si uniscono. Sopra di noi svetta la grande parete nascosta: spaventosa e bellissima è un susseguirsi di tetti strapiombanti e fessure oblique. Quella parete è il futuro dell’Isola Senza Nome: la progenie dell’Isola, i testimoni della tradizione, un giorno verranno qui e scriveranno nuove e meravigliose storie …e dovranno essere davvero fortissimi per farlo!
Ci sediamo a mangiare quello che è rimasto nel sacco razionando l’acqua a disposizione. Poi alle mie spalle un boato distante. Nella mia mente una domanda senza senso “Il sabato sparano le mine nella cava di Lecco?”. Ma la risposta è davanti ai miei occhi: le Grigne sono coperte di nero e lampeggiano di fulmini. Chiusi nel canale non avevamo visto il cambiamento del tempo. Osservo quella massa nera che brilla di viola quasi sconsolato. Il nostro piano non cambia, possiamo solo sperare di uscire verso l’alto ed ora dobbiamo farlo prima che quell’inferno ci si schianti addosso.
Abbiamo davanti a noi solo due soluzioni. La terza, quella più ambiziosa ed esplorativa, va purtroppo scartata a priori. Possiamo puntare sul canale di destra cercando di intercettare l’uscita delle vie sulla Parete Nord oppure puntare sul canale di sinistra e cercare di guadagnare l’uscita. Non esistono informazioni sul canale di sinistra, tutto quello che sappiamo sono le foto scattate dall’alto la scorsa estate con mio fratello e quelle fatte la scorsa settimana dal battello. Forse si passa, ma di sicuro c’è un grande salto prima della valle erbosa. Puntiamo a sinistra con la possibilità di rimontare la cresta centrale qualora servisse un “Piano B”.
I tuoni si fanno sempre più forti ma nel canale, sotto i grandi tetti della Parete Nascosta, non abbiamo idea se abbia già iniziato a piovere. Dobbiamo muoverci in fretta, ma non sbagliare. Spingere e trattenere: il temporale all’orizzonte batte il suo ritmo come un tamburo ma noi dobbiamo tenere il nostro.
Il primo tiro nel canale è poco incoraggiante. Ciò che sembrava facile si dimostra difficile e ci fa tribolare, ci ruba tempo. Poi la situazione cambia, il canale si allarga, compare qualche pianta e salvo qualche salto roccioso superiamo due tiri da sessanta quasi camminando. Poi il canale reclama e si oppone con una piccola cascata fatta di lame oblique che rimontiamo con un friend e un chiodo “simbolista”. Forse ce la si fa, il temporale incalza ma la montagna sembra finire. Se riusciamo a raggiungere il bosco in cima possiamo giocare a carte con Noè sotto la pioggia, ma dobbiamo uscire.
Due grandi grotte segnano il nostro cammino prima che questo si infranga contro l’ultima colossale muraglia: il muro dei sogni rubati. Il canale è bloccato da una cascata di roccia inchiodabile e coperta di melma. Proviamo un attacco frontale ma appare subito disumana.
A sinistra la grande parete nascosta mentre a destra roccia fragile che rimonta la cresta centrale. “Piantiamo tutti i chiodi che abbiamo, ma dobbiamo rimontare quello schifo sulla destra”. Attraversiamo il canale mentre il temporale ringhia minaccioso. Mattia si alza, pianta un chiodo il cui suono è una promessa, poi si alza e gira lo spigolo: “No! Non è così male come sembra, si passa bene di qui!!” La corda inizia a scorrere, Mattia si muove veloce. “Trenta!” urlo quando passa il segno della mezza corda. “Dieci!”. “Cinque!”. La corda scarseggia tra le mie mani. “Mi servono cinque metri per raggiungere una pianta!” Mi urla Mattia dell’alto. I tuoni ridono di noi, smonto la mia sosta e parto verso il primo chiodo. “Vengo!”. Sono scocciato, quasi arrabbiato, niente e nessuno dovrebbe provare a fermarmi quando sono in quello stato mentale. Raggiungo il chiodo e mi alzo finchè ancora mi è ancora possibile schiodarlo. “Sono alla pianta! Stai fermo che faccio sosta!” mi urla Mattia. Lascio che si leghi e riparto, ha bisogno di altra corda per mettermi in sicura. ”Okay, ora sei dentro! Vieni!” Il tiro scorre veloce tra roccia ed erba, altri sessanti metri che ci portano finalmente tra le grandi piante. Il temporale si è spostato verso sud, non ha attraversato il lago, non ci ha preso.
Siamo fuori, tra le piante, le Grigne sono limpide ed un tramonto rosso illumina il Lario e la punta di Bellagio. La “pace” è una gioia che scoppia all’improvviso. Siamo fuori: abbiamo attraversato la frontiera e fatto ritorno.
Ci stringiamo la mano riempiendoci di pacche prima di crollare seduti sull’erba. Lui chiama Serena, io Bruna: è tempo di rassicurarle. “Siamo fuori, tutto bene”. Bruna ride, mi racconta che a Varenna è da poco finita una terribile grandinata. Quando lo racconto a Mattia restiamo un attimo in silenzio osservando il lago: “Varenna è là davanti…”.
Poi Mattia si fa avanti. “Hai già un nome? Io ne ho pensato uno poco fa.” “Spara!” “C’è la Parete del Tempo Perduto, la via del Tempo Rubato, la via Tempo al Tempo. Potremmo mantenere la tradizione e chiamarla via ‘Buontempo’, tutto attaccato: sia per celebrare il brutto tempo sfiorato che per rimarcare il ‘buontempo’ che devi avere per una ravanata simile!” “Mi piace! Approvata!”.
La via esplorativa “Buontempo” si innalza per oltre seicento metri, con uno sviluppo a zig-zag piuttosto difficile da valutare. Non sono in grado di ricordare il numero esatto di tiri, credo siano attorno ai quindici: la maggior parte sui trenta/quaranta metri ma tre o quattro anche sul sessanta pieno. Abbiamo impiegato poco più di dieci ore dall’attacco all’uscita. Il grado massimo, con la dovuta furbizia, è un V+ …ma nella gradazione dei Corni di Canzo con l’aggiunta di un tocco speleo. Nessun chiodo è stato lasciato in via. La roccia è terribile, l’erba spaventosa, l’esposizione agghiacciante appena metti il naso fuori dal canale. No, non abbiamo mai usato le picozza ma, con quello che l’ho pagata, era un piacere sentirsela addosso. Il triangolo nelle foto indica il punto denominato “Piazza Grande”.
Mattia si conferma uno straordinario chiodatore, un caparbio lottatore capace di mantenere il sangue freddo nelle difficoltà. Uno dei migliori con cui abbia mai arrampicato, uno dei più “solidi”, probabilmente l’unico con cui affrontare una “ravanta” tanto incerta e scomoda quando la tempesta incalza. Negli annali dell’Isola Senza Nome la nostra cordata non sarà ricordata come la più forte, nè la più furba o saggia, ma per certo come una delle più coriacee e selvagge che abbiano attraversato con coraggio i territori dell’Isola. Grazie per essere stato mio compagno in questa nostra ennesima avventura.
Davide “Birillo” Valsecchi