Mattia mi chiama al telefono, è un po’ che non ci sentiamo e chiacchieriamo un po’ della vita “civile”, della quotidianità, del lavoro. Poi la domanda classica “Sabato Torrione Fiorelli?”. Pondero e ribatto “Tessari?”. “Sì, ma rapidi e veloci che ho i bimbi a casa” “Okay, solito orario al parcheggio?” “Sì, le corde le ho io” “Bene, andata. A domani!”. Ci si dilunga spesso sulle futilità solo per essere spicci nelle cose serie.
Il Torrione Fiorelli era qualcosa a cui avevamo pensato già da un po’. Un Imponente torrione sul versante Sud Est della Grignetta, oltre il Canale Porta, isolato dal consueto affollamento di cordate che contraddistingue il web-end a monte dei Resinelli. I fratelli Franco e Giorgio Tessari sono, nel senso latino di “primi tra i pari”, due “princeps” dell’Isola Senza Nome: ripetere la loro via del 2007 era un omaggio alla tradizione. L’idea originale era sfruttare l’esposizione a sud in qualche giornata d’autunno, ma in fondo ci sentivamo abbastanza “rapidi e veloci” da sfuggire alla morsa del caldo.
I grandi prati alla base del pendio su cui innalza il Fiorelli sono un’angolo della Grignetta davvero molto bello e poco frequentato. Il torrione, estetico e slanciato, è la struttura più appariscente di un gruppo decisamente interessante e misterioso. Ivan me ne aveva parlato spesso in passato, oltre ad aver “liberato” la Boga alla fine degli anni 80 aveva esplorato tutta quella zona: in uno scenario simile, con la gioventù dalla sua, c’è da “tremare” pensando quale magia può aver combinato da quelle parti il nostro agguerrito “vecchiaccio”!
Noi imbocchiamo il canale salendo verso la grotta alla base del Torrione. I ricordi scivolano verso la Val di Mello quanto, puntando all’attacco di Luna Nascente, ci eravamo infilati dritto per dritto lungo una cascata. La prima di una lunga serie di stramberie che, per arrembante ingenuità, ci portano a chiudere la via in “conserva” perchè, per distrazione, “mancammo” una sosta di uno degli ultimi tiri. “Errori” e “soluzioni” che a distanza di anni, fortunatamente, ci fanno ancora sghignazzare complici.
L’attacco della via è un diedrino erboso che rimonta di traverso verso sinistra su roccette. Io pregusto la “mastrufolata” ma Mattia, abbagliato da uno spit e da delle traccie di magniesite, decide di rimontare dritto per dritto sulla roccia. A metà dello spigolo la magnesite sembra ripiegare verso il canale erboso, probabilmente spaventata dalla roccia compatta e dalle zolle d’erba che si scrostano. Mattia pianta un “chiodino” e continua su per il dritto: ”Già che siam qui….” Il primo tiro diventa qualcosa di decisamente più complicato di un III° ed invece di tirare piacevolmente ciuffi mi tocca lavorare sulle tacchette.
Il secondo tiro invece torna regolare, ma di magnesite non ci sono altre tracce. Roccia tutto sommato buona, con molte belle clessidre ed un vecchio chiodo artigianale realizzato saldando un pezzo di ferro a T ed un anello metallico realizzato con i tondino d’armatura. Un contrasto che è uno schiaffo in faccia a mano piena contro tutte le manfrine high-tech dei rinvii con moschettoni ultra-light su cui si basa oggi il marketing per acchiappare i “climber warrior” moderni.
Il terzo tiro le cose si fanno decisamente più complicate. Ci si alza verso sinistra, poi si traversa verso destra per raggiungere la base della fessura strapiombante che è “nominalmente” il passaggio chiave della via. Mattia si alza, allungo l’ultimo chiodo con una fettuccia, lo rimonta e poi parte per il lungo traverso. Io da sotto smadonno silenziosamente calcolando quanto quel traverso, con quell’ultima protezione allungata, possa trasformarsi in un pendolo d’antologia horror per il secondo.
Mattia alla base della fessura prova ad alzarsi guardandosi intorno: “Strapiomba un sacco: tentarla in libera è una rogna, se cado batto diretto sul terrazzino”. Così iniziamo a manovrare di concerto. Si alza e la scelta si rivela quella giusta. Forse manca un chiodo nella parte centrale o forse il passaggio obbligato è più lungo di quanto ci si aspetterebbe. Mattia piazza a un nut: proviamo a caricarlo e sembra tenere. Lavoriamo con le corde mentre si allunga leggero verso l’alto ed in equilibrio riesce ad agganciare il chiodo successivo. “Fiuuu… era un po’ che non provavo questa sensazione. Sembra di essere tornati ai Corni!”. Mattia, nella sua versione da “risolutore spleo”, chiude il passaggio, rimonta lo spigolo e scompare alla mia vista. “Davide: Sosta!” “Mattia: Libera!” “Davide: quando vuoi!” “Mattia: Vengo!”. La nostra voce fa il giro della valle e riusciamo a parlarci solo attraverso l’eco. Lui non mi vede ed io non vedo lui.
Il traverso è una gran rogna e l’ultimo chiodo è una trappola. Devo riuscire a rimontarlo senza sganciarlo. Devo, con la corda che mi tira dal basso, trovare il giusto equilibrio e le giuste prese per sganciarlo in mezzo alle gambe prima di affrontare il traverso. Se faccio diversamente, se lo gancio prima di rimontarlo, rischio di tirarmi un pendolo verso fanculandia di sei metri con la corda che canta un requiem su una tastiera di spuntoni rocciosi. “Putt*** Eva! E poi dicono che da secondo è tutto facile! Fanculo”. Parto, disimpegno la rogna del chiodo ed attraverso leggero. La seguente fessura strapiombante, da secondo con la corda verticale dall’alto, diventa per me la parte meno impegnativa del tiro.
Ci ritroviamo sulla cengia erbosa attaccando il quarto tiro. “La roccia non ha una bella faccia qui…”. Lame spuntano verticali tra l’erba puntando ad un incassato diedro obliquo verso sinistra. “Mattia, e se ce ne andassimo a bere la birra passando dai prati?” “Ma va, due tiri e siam fuori, il duro è fatto”. Dieci minuti più tardi Mattia è nel diedro e smadonna: “Si muove tutto: non so se seguire il diedro o rimontare”. Alla fine segue il diedro e trova un chiodo sulla parte finale. “Pare proprio sia qui, ma sto muretto è duro da risalire”. Si alza un po’, si allunga e pianta un universale, poi si alza. “C’è un fittone lassopra, forse è la sosta”. Si allunga ancora e pianta un knifeblade, poi rimonta. Due movimenti ed è in sosta: un fittone con una curiosa catenella ed un chiodo da collegare oltre lo spigolo.
Quando arrivo al diedro mi ritrovo nuovamente in un pendolo-dromo: “Putt*** Eva!”. La corda mi è nemica e mi lavora contro: cerco di alzarmi al di sopra del dietro, per appigli solidi, cercando di accorciarla, poi mi riabbasso per afferrare con la sinistra l’unica presa buona nel diedro, abbasso la spalla destra incastrandola sotto lo spigolo allungando verso l’alto il braccio destro mentre i piedi spingono in appoggio cercando di tenermi quasi disteso nel centro del diedro. Mi allungo, afferro qualcosa che tiene con la destra, lascio che il barricentro “pendoli” il culo fuori dal diedro e con due movimenti controllati mi raddrizzo in linea con la corda: “Fanculo i traversi!” Sghignazzo. Supero il chiodo di via e raggiungo il primo chiodo piazzato da Mattia.
“Okkio che quel chiodo è quello Eghen!” mi dice Mattia dall’alto. Quel chiodo, dopo la notte di battaglia nel Camino dell’Eghen, era rimasto un anno intero nella roccia in cui lo avevamo piantato durante la nostra roccambolesca fuga dalla montagna. Mattia, contrariamente ad ogni mio suggerimento era tornato in solitaria e, equipaggiato speleo, si era calato dall’alto solo per recuperarlo. Mattia è fatto così, è un uomo dai solidi e bislacchi principi.
Il chiodo è un Kong Univesale, un Athos di media lunghezza. L’occhiello era incassato oltre una lama di roccia che si oppone mentre cerco di estrarlo. Solitamente uso un vecchio moschettone per tenere il chiodo mentre batto con il martello. Tuttavia, visto che non viene, tolgo il moschettone e faccio leva con la becca della mazzetta. BLAM! Senza alcun preavviso il chiodo schizza via e piomba verso il basso precipitando sulla cengia erbosa. Sì, avevo appena perso il “chiodo magico” di Mattia.
“Ma no!!! Ma osti!! Ho visto dove è caduto! Ti calo e lo vai a riprendelo!” Brontola sconsolato Mattia dall’alto. “Fanculo! Io mica lo rifaccio sto tiro! Senti un po’, ne ho a casa cento uguali: te ne do uno e siamo pari”. Mattia brontola, ma poi si rassegna “Vabbè, se me ne dai uno uguale io farò finta sia quello dell’Eghen”. Quando ho deciso di diventare un mercante di chiodi non avrei immaginato di dover trattare anche appeso in parete!
Lo raggiungo in sosta e mi preparo. “Devi scavalcarmi?” “No, la via va a sinistra?” “Sinistra?! In quel merdaio di rocce rotte? Non gira su questa placca a destra uscendo a sinistra da quel tetto?” “Ma sei fuori, su quella placca non ci si può proteggere!” “Hanno piantato fix e fittoni, vuoi che non abbiano messo qualcosa per risolvere su roccia buona?” Così, indecisi sul da farsi estraiamo la fotocopia della relazione della “Scuola Guido della Torre” (purtroppo non ho la relazione originale pubblicata su Vertice 2007): “salire l’evidente fessura a sinistra della sosta, non impegnativa ma a tratti friabile (chiodi), segue una breve muretto verticale (fittone), poi un breve tratto su roccette e detriti porta alla base di breve diedrino liscio da affrontare con decisione. Sosta su chiodone cementato con cavo d’acciaio, da rinforzare con friend piccolo nella fessura poco più sotto. Attenzione alla qualità della roccia, da verificare sull’intera lunghezza. Prestare molta attenzione ad un masso instabile posizionato alla base del muretto verticale.” Ecco: mancano solo i cecchini ed una pioggia di rane…
Allungo il naso e guardo il primo passo a sinistra: roccia brutta sopra un vertiginoso abisso. Il caldo comincia a farsi sentire e quel tipo di roccia consuma tempo con la stessa costosa intensità con cui il mio vecchio Subaru brucia benzina. Infilarsi in una rogna a rebattone di sole davvero non mi allettava. “Ma noi non ne abbiamo mai abbastanza? Non ne abbiamo già mangiata abbastanza di roccia marcia nel corso degli anni?” Brontolo mentre Mattia sembra indeciso, poi gioco il Jolly: “E se ci caliamo ed andassimo a bere la birra passando per il prato? Evitiamo sta rogna e recuperiamo anche il chiodo!” Senza il chiodo le mie possibilità di convincere Mattia a mollare una via all’ultimo tiro sarebbero state nulle, ma quello in fondo era il “chiodo magico dell’Eghen”.Placidamente sull’erba attendo Mattia pregustandomi la birra. I Corni, all’orizzonte alle nostre spalle, sembrano prenderci in giro dalla distanza: “Bigoli! Siete proprio bravi voi due… Tutta quella strada per infilarvi nella roccia marcia? Qui a casa ne avreste trovata quanta ne volevate! heheh …Bigoli!!”. Come dare torto ad una montagna? Poi attraversiamo la cengia erbosa e ci troviamo alla grande grotta ad arco in cui attacca la via di Bramani del ’26. Un camino percorso in discesa da Giacomo Fiorelli nel 1904 e da cui prende il nome tutto il torrione. Ci fermiamo un istante all’attaco. “Però… essere qui davanti ad una via di Zio Vitale e non farla…” Zaini a terra infiliamo nuovamente le scarpette. Vitale Bramani è lo straordinario compagno di Eugenio Fasana, capostipite, “primo tra i primi”, degli arrampicatori dell’Isola Senza Nome: concatenare una Tessari ed una Bramani significava chiudere un cerchio nella tradizione, non potevamo sottrarci!
Il camino è gioia pura. La roccia assomiglia a quella del pilastrello e si sale senza prese, tutto in spaccata ad incastro. Movimenti classici, atletici ma eleganti. Superiamo il sasso e ripartiamo oltre lo spigolo addentrandoci nella bellezza della placca successiva. La mente non può che rimanere affascinata nel vedere cosa erano in grado di fare negli anni trenta i grandi pionieri dell’arte verticale. La serenità di essere su un capolavoro travolge ogni difficoltà: “Se sono passati loro per ogni problema esiste una sua soluzione, bella ed elegante, da comprendere”. Arrampicavano con gli scarponi o con le pedule, con corde che erano canaponi, moschettoni che erano anelli in ferro e ferracci come chiodi. Eppure la natura sembra aver premiato il loro eroismo regalano loro l’inaspettato di cui avevano bisogno: passaggi tutt’altro che banali, spesso vertiginosamente esposti, che si risolvono con una solida presa quasi invisibile, ma sempre presente. Rimonto oltre un masso in opposizione con un movimento che sembra quello riflesso dell’arco di kundalini, poi chiudo le spalle e a cavatappi infilo un braccio verso l’alto alla cieca, trovo una presa e mi avvito passando oltre. Oltre uno spigolo una serie di piccoli appoggi sembra formare un’esile ballatoio, una piccola presa di dita a sinistra, ci si sfila sullo spigolo lungo il ballatoio e poi fessura a tornare. Roccia solida, compatta, movimenti sempre logici, eleganti, arditi ma sicuri. Gioia, gioia pura! Le vie degli anni trenta, quando non diventano aceto, sono pregiato vino d’annata!
Dalla croce in vetta al Torrione, ci si cala con tre doppie un po’ oblique lungo la linea della normale. Questa via, del 1906, corre tutta nella falsa protezione di un camino e mostra come, con mezzi dell’epoca, gli arrampicatori di quel tempo avessero un “pelo” ed un coraggio oggi forse impensabile. Invece la vecchissima via originale, oggi quasi completamente dimenticata, corre probabilmente nel camino visibile dal basso sul lato Est alla cui base si accede proseguendo verso destra lungo la cengia erbosa da cui siamo usciti noi. Conoscendo la “cricca” e la mentalità dell’epoca quel camino avrà probabilmente caratteristiche simili a quelle del camino sulla Parete Fasana qui ai Corni (quarto grado che agghiaccia ed intriga!!).
Quindi birra ai Resinelli e poi giù, doccia e grigliata in giardino con il resto dei Tassi del Moregallo.
Note: la Guida LarioRock Pareti, la guida “per i milanesi che rientrano in elisoccorso chiedendosi cosa sia andato storto”, liquida brevemente la Tessari come una via di 6a+, 5a obbligato, aggiungendo: “via recente che sale l’estetico spigolo sud su roccia da buona a ottima. Chiodatura sicura mista chiodi e spit. Arrampicata fisica mai troppo impegnativa. Consigliata.” Mavaffanculo ai fenomeni della carta stampata… A casa mia un 5a è Visitor2 a Scarenna: salvo l’unto tutti, con un po’ di pratica, possono riuscire a superarlo in sicurezza. La Tessari è invece una via in ambiente con un severo passaggio di VI+, tutto lo sviluppo richiede esperienza sufficiente per individuarne i pericoli e le difficoltà. Una via alpinistica su roccia da comprendere. Ma, in ultima analisi, è proprio questa la sua bellezza: la possibilità di confrontarsi ed imparare dalle scelte dei fortissimi fratelli Tessari. Non c’è nulla di “sportivo” in quella via, quindi dimenticate la becera scala francese e tenete bene a mente quella U.I.A.A. (la Welzenbach aperta). Portatevi il martello e fate riferimento alla relazione originale di Vertice 2009 (vedrò di recuperarla) oppure a quella della Scuola Guido Della Torre (sempre molto precisa e ponderata). Per la Bramani o la Normale potete fare riferimento ai Sass Baloss, sempre corretti ed onesti nelle loro relazioni. Concatenare la Tessari e la Bramani si è dimostrata una soluzione molto appagante che, in Grignetta, può darvi un ampio assaggio dell’arrampicata sull’Isola Senza Nome.
Davide “Birillo” Valsecchi