La faccenda era imbarazzante: in uno dei miei recenti giri esplorativi sul versante orientale del Moregallo avevo intravisto, isolata su una cresta al sole apparentemente irraggiungibile, una piccola casetta di sassi. “Birillo, lassù hanno costruito una casotta e tu non hai la minima idea di come fare ad arrivarci! Come la mettiamo?”. Già, il versante est è infatti un territorio sconosciuto fatto di prati verticali e salti rocciosi che in spaventosi canali precipita nel lago. Studiando le mie foto mi ero fatto una mezza idea ma le incognite erano ancora moltissime. Salvo il sentiero del Cinquantesimo Osa non ci sono sentieri “ufficiali” e quelle poche ed ataviche “linee” conosciute sono tutt’altro da sottovalutare e che, anzi, spesso hanno complessità e difficoltà che sfociano nell’alpinismo esplorativo.
Così, di buzzo buono, sono andato a controllare. Giunto al sasso di Preguda, usando il cannocchiale, ho potuto “confermare” l’esistenza della casotta ed il fatto che in qualche modo fosse anche ben tenuta da qualcuno. “Quindi ci si arriva, ma da dove?” Da qualche parte un piccolo segreto permetteva di vincere canali e pareti sconfinando nel “mondo selvaggio” fin laggiù. Molto probabilmente era possibile arrivarci risalendo il leggendario “sentiero della teleferica”, un tracciato aereo su erba verticale che vince un passaggio di roccia grazie a dei muretti a secco costruiti dai vecchi. Il buon “Guerra”, che l’ha già percorso, è stato molto chiaro nel mettermi in guardia dall’affrontarlo da solo senza conoscerlo. Per questo, anche per mantenere fede alla promessa di fare “il teleferica” insieme, dovevo trovare il modo di raggiungere la casetta dall’alto anzichè dal basso. Già, ma chi conosce quella zona può capire quanto rognoso possa diventare esplorare in discesa quei canali.
L’idea era riuscire ad intercettare l’uscita della cresta per poi tentare la discesa. Il problema però era innanzitutto riuscire ad orientarsi scegliendo la cresta giusta, evitando al contempo di trovarsi a sbalzo su salti troppo alti o troppo difficili da ridiscende. L’alternativa, attraversare i canali, sembrava anche più dissennata e quindi, per scendere, non potevo far altro che salire.
Al primo tentativo ho sbagliato e sono salito fin al grande torrione che simpaticamente ho ribattezzato “il naso di Smugg” per via del il grande tetto “a naso” che lo contraddistingue. Ho attraversato il canale franoso che attacca alla base della parete e raggiunto la successiva cresta erbosa. Oltre il crinale mi si è spalancato davanti un universo di canali e strapiombi di cui neppure immaginavo l’esistenza. Il vento che soffiava da nord aumentava, e di non poco, l’ansia di trovarsi da solo in posti luoghi così remoti, complicati ed aerei. Curiosamente in quel momento Ivan Guerini mi ha mandato un “what’s-up”: “Biriz, quanti chiodi ti sono rimasti per domani?”. Gli ho risposto che ero impegnato inviandogli però una foto della cresta davanti a me. Un gesto semplice, forse, ma che è riuscito ad alleggerire (e di non poco) la tensione di quell’isolamento: “qualcuno ora sa dove sono”.
La mia cresta erbosa, oltre ad essere sbagliata e temibilmente in ombra, sembrava morire in un salto roccioso molto alto. Così ho riattraversato il canale inseguendo il sole ed il conforto del bosco. Tutavia avevo scoperto abbastanza per fare un ulteriore tentativo su una cresta promettente, dove paglione e betulle sembravano invitare verso una strada sicura. Sotto di me la cresta, ora ben visibile ed ancora illuminata dal sole, scivolava infatti verso la casotta. Tuttavia il crinale impenna in un significativo dislivello, tutto da decifrare, dove il paglione si mischia a piante e roccette a sbalzo verso il canale. “Qui si salta un po’…”
Esplorare in discesa è un vero casino, il rischio di scivolare si somma all’impossibilità di valutare i salti di roccia fino quando non ci arrivi a ridosso: bisogna essere davvero cauti e prudenti perchè il rischio del “tuffo” è in agguato. “Sì però, Birillo, dall’alto non si vede davvero un ostia!” In qualche modo mi abbasso tra le piante disarampicando su roccette esposte ma solide. Senza cadere, ovviamente, cerco di arrampicare fuori dal paglione per riuscire ad orientarmi nella discesa.
Poi succede qualcosa di assolutamente imprevisto. Aggrappato a degli speroni mi muovo per raggiungere una comoda cengia erbosa su grosso sasso. Quando però carico il piede sull’erba della cengia questa crolla all’improvviso: quello che sembrava un grosso sasso coperto dalla terra è in realtà due massi incastrati su un canale, l’appoggio si trasforma in un buco, in una trappola. La gamba sinistra precipita nel buco fino a metà coscia mentre io piombo di schianto con il gomito e con il petto su uno dei due massi: il panico!
Per un istante rimango raggelato, solo all’ultimo mi ero reso conto della situazione e solo fortunatamente ero riuscito a reagire con abbastanza prontezza perchè la gamba non andasse in torsione. “Puttana eva!”. Avevo sbattuto duro ma avevo impedito che il corpo sbandasse facendomi precipitare o spezzandomi la gamba nel buco. Una stramaledetta trappola assassina: se avessi rotto la gamba in quel punto della montagna sarei stato davvero fottuto oltre limiti accettabili…
La gamba, a penzoloni nel vuoto tra i due sassi, è fortunatamente intatta ma lo spavento è stato una mazzata. “Stramaledetto buco!” Per qualche istante la mia mente pensa solo ad “fuggire” dalla montagna tornandomene in fretta sui miei passi. Poi però mi acquieto e la mente, quasi in automatico, trova i passaggi successivi. “Forza, tirati su: se risolvi queste roccette lassotto sembra esserci persino una specie di sentiero”.
Riprendo a disarmpicare cercando di infilarmi tra diedri e canaletti maledendo la mia incapacità di “vedere il trucco” che probabilmente rende possibile vincere quel passaggio con maggiore facilità. Finalmente sono di nuovo sulla cresta erbosa ed in men che non si dica raggiungo la tanto agognata casetta. Il punto di osservazione attorno a me è incredibile: è pieno di cose che non avevo mai visto! “Ma quelle placche son roba vera?!?”
Mi guardo intorno felice e, proprio in quel momento, succede un’altra stranezza inattesa. Mi vibra il cellulare e mi arriva un’email. Già, sto in un posto fuori dal mondo e mi arriva un email! Mi scrive infatti Giuseppe, che ancora non conosco, perchè dopo aver letto il mio articolo su “Cima” (“Sequesto è un uomo“) voleva condividere con me le sue esplorazioni di quella zona ed il modo che aveva scoperto per raggiungere proprio la casotta davanti a cui mi trovavo in quel momento. La tempistica era quasi surreale e rendeva quel fortuito incontro a distanza ancora più speciale. “Sì Giuseppe, dalla casotta si possono vedere davvero una miriade di altri luoghi interessanti dove poter curiosare: ben volentieri spero di esplorarli insieme!”
Divertito dall’accadimento volevo lasciare un regalo anche allo sconosciuto amico che si prende cura della casotta. Volevo lasciargli una testimonianza ma allo stesso tempo volevo rassicuralo che non avrei turbato la riservatezza e la serenità di quel posto che di diritto gli appartiene. Così, infilandolo attraverso la feritoia della porta in legno, ho appoggiato sulla piccola panchina all’interno uno degli adesivi dei Badgers, fermandolo poi con un piccolo sasso perchè non volasse via scosso dal vento. Visto dove si trova il suo rifugio segreto ha di certo le carte in regola per essere uno dei Tassi del Moregallo!
La via del ritorno, ora in salita e partendo da un punto noto, è stata di gran lunga più semplice e la sottile traccia mi ha insegnato molti trucchi per aggirare i tratti esposti che avevo percorso in discesa. Superate le rocce il sole illuminava di rosso il paglione giallo scosso dal vento del nord, le difficoltà erano finite e potevo abbandonarmi alla bellezza del Lario, al fascino selvaggio del Moregallo nei colori dell’autunno: non male come giretto!
Davide “Birillo” Valsecchi