Nella foto, scattata a Schio nel 18 aprile 1962, appaiono da sinistra Gino Soldà, Walter Bonatti e Severino Casara. Questa foto proviene dal blog di Alessandro Gogna mentre il testo che segue è tratto da una rivista alpinistica del gennaio 1968, “Rassegna Alpina”, ed è parte di un intervista a Severino Casara, un tra i più celebri registi di montagna dell’epoca, dopo la proiezione di un documentario su Paul Preuss ad una platea di giovani. Rileggere questo testo, a distanza di quasi 50 anni è assolutamente intrigante: alcune riflessioni appaiono tutt’oggi moderne e decisamente rivoluzionarie! Le parole di Casara sembrano mostrarci gli istanti che hanno preceduto l’alba del Nuovo Mattino:
Che la rivelazione della vita di Preuss avesse un’importanza fondamentale nella storia dell’alpinismo, non v’era dubbio, ma mi stupiva il fatto che proprio i giovani e i giovanissimi fossero stati i prima ad intuirla. Davanti a tale affluenza di giovani, mi sentii come un decrepito matusa, tanto che la prima sera stentai ad aprir bocca. I loro occhi vivi puntati su di me parevano frecce scagliate contro chi osava tirar fuori dal dimenticatoio di mezzo secolo fa la storia di un uomo, autentico per eccellenza all’evoluzione del così detto alpinismo moderno; contro chi, in un’epoca così dinamica e violenta andava a rievocare un clima sereno, cavalleresco, aristocratico, pieno di sentimento, educazione, cortesia, fraternità e abnegazione, sublimate dalla modestia, dalla squisitezza di animo e da una sensibilità artistica superiore. Tutte espressioni appartenenti al vocabolario alpinistico dei nostri nonni, e che l’attuale aveva bruciate, sostituendole con quelle della lotta al monte senza quartiere, della forza e della velocità, della violenza con ogni mezzo e del primato ad ogni costo. Terminologia grossolana derivata dalla guerra, introdotta dallo sport e bene alimentata dal clima delle macchine, del cemento e della pubblicità. Ma con il sole, per fortuna, ogni giorno madre natura fa nascere creature umane dotate di intelletto e sentimento, capaci di opporsi ad ogni deleteria influenza e aprire l’occhio profondo dell’anima per comprendere la vera bellezza che le circonda.
[…] Tutto è operazione: operazione roccia, operazione ghiaccio, operazione sci, operazione chiodi e attrezzature multiple, operazione salvataggio, e tutto è valutato in cifre. Cifre sui gradi di difficoltà, sulla velocità impiegata, sul numero di chiodi, sul peso del materiale, sulla lunghezza del percorso, aride espressioni che meglio non possono spiegare l’altrettanto arido valore di tali prestazioni “I pali della cuccagna di Ruskin sono diventati la più amara realtà”.
[…] Una scalata artificiale su uno dei torrioni dell’Hoggar, e un’altra sulla più violentata parete delle Alpi, la nord della Cima Grande di Lavaredo. Roba da matti! Sembravano due film pubblicitari di un’impresa edile specializzata! Mi chiedete la differenza tra l’alpinismo di Preuss e la moderna scalata artificiale. Secondo me, che ho fatto pure il sesto grado, quello alla Comici, alla Carlesso, alla Cassin, dove solo in alcuni punti si forzava il passaggio proibito coi chiedi, e il resto si faceva in libera, non quello di oggi dove la roccia non si tocca più, sempre appesi alle staffe e ai chiodi piantati ad ogni mezzo metro, e molti dei quali ad espansione, vi posso dire che l’arrampicata presentava un particolare fascino, benchè evidentemente apparisse più un impresa acrobatica e sportiva che un’ascensione alpinistica. Abituato a salire in libera mi accorsi subito che tali scalate artificiali se riuscivano a superare passaggi impossibili, eliminavano però quasi del tutto il rischio, che invece le arrampicate libere comportavano di continuo. Schiavi di corde e chiodi il procedere era greve, sempre assillato dalla ricerca di una fessura o di un buco per innestarvi il ferro, che in definitiva doveva tramutarsi in appiglio o appoggio, trasformando la conformazione naturale della parete.
[…] Non vorrei dirlo, ma lo sento. Per me, sulla roccia, l’arrampicata libera è la fiamma, quella artificiale è la cenere. La stessa differenza che passa tra un sonetto di Petrarca e la macchina che lo ha stampato, un dipinto di Raffaello e la tavolozza che ha fornito i colori. Nell’arrampicata libera il rischio, anche se ridotto dalla sicurezza, dà all’azione l’alito che la ravviva e la fa trascendere nel clima dell’arte, del sublime e dell’eroico. In quella artificiale il rischio è ormai è ridotto a zero, per non dire eliminato. Preuss disse in proposito: “Se cadi è la fine” è ben diverso da “se cadi, cadi uno o due metri e rimani appeso ai chiodi”. Basta tale rilievo per comprendere l’alto livello etico ed imparagonabile dell’arrampicata libera.
[…] Proprio recentemente due grandi alpinisti, che si dilettarono anche a compiere imprese eccezionali coi mezzi artificiali, i miei cari amici Steger e Carlesso, si incontrarono. E poichè Carlesso, ultracinquantenne, continua a compiere scalate in artificiale, Steger chiese: “Perchè ti ostini sul sesto grado? Ormai dovresti mollare!”. Al che, Carlesso risponde: “Caro mio, continuo fin che posso a fare il sesto grado, perchè ho paura del quarto!” Risposta quanto mai eloquente che da sè dice tutto.
Severino Casara
Testo tratto dall’intervista dopo la conferenza:
“I giovani d’oggi e la concezione alpinistica di Preuss”
Pubblicazione originale: “Rassegna Alpina“, Febbraio 1968
Biblioteca Canova, Cima-Asso.it