Tempo Rubato (B&R)

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Ero tornato dal lavoro e, sprofondato nella poltrona, pregustavo l’uscita in Grigna del giorno successivo leggendomi un buon libro: avevo voglia di camminare, di ritrovarmi solo in grandi spazi aperti. Nello specifico stavo leggendo un volume di Bernard Amy, “Il più grande arrampicatore del mondo”, che avevo comprato in un cestone di libri usati. Il primo a parlarmi di quei racconti era stato Gianni Mandelli ed era stato proprio il suo suggerimento a spingermi quel giorno all’acquisto.

Ero quindi immerso nei racconti di Tronc Feuillu, un giapponese che narrava all’autore la storia di uno scalatore cinese di nome Chi-Ch’ang. “L’ultimo stadio dell’attività è l’inattività…“ una narrazione epica che raggiunge il suo apice nella celebre frase del maestro Kan-Ying: “Scarpe? Roccia? Finché si ha bisogno di scarpe e di roccia per salire, non si conosce nulla di quest’arte. Il vero arrampicatore non ha bisogno di artifici, nemmeno di roccia.” Seduto in poltrona mi sentivo il quinto miglior arrampicatore del mondo: “L’ultimo stadio della parola è il silenzio. L’ultimo stadio dell’arrampicare è il non arrampicare”

Ma è proprio in quel mentre che Bruna mi porta il telefono: è Gianni Mandelli. «Davide, domani vieni ad arrampicare sulla Nord del Moregallo?» Forse era solo una coincidenza ma io non credo molto alle coincidenze, troppo spesso si sono dimostrate il “pendolo” con cui il caso scandisce il proprio tempo.

Gianni, è un accademico, un alpinista tra i più esperti che io conosca nonchè il custode e protagonista di buona parte della storia dell’Isola Senza Nome. Sono sue le pubblicazioni e gli scritti che hanno guidato la maggior parte di noi tra le nostre montagne. Nonostante ci si conosca e si sia diventati amici ormai da qualche anno, non avevamo mai arrampicato insieme. Anzi, in passato avevo declinato alcuni suoi inviti nell’incertezza di non essere abbastanza in forma o preparato.

«Domani vieni ad arrampicare sulla Nord del Moregallo?» Una domanda semplice ma allo stesso tempo complessa. La mia prima volta sulla quelle grande parete in cordata con uno dei suoi più grandi conoscitori: non è qualcosa che si possa trascurare. Tuttavia da oltre due mesi, da quando Bruna si è fatta male, non ho più infilato le scarpette o toccato la roccia. Ho camminato, nuotato, ma nulla più. Ero fuori forma, senza sensibilità, e dovevo rispondere a bruciapelo. Qualcuno una volta mi ha detto che quando il destino chiama bisogna essere pronti, anche quando non lo si è: «Okay Gianni, mi farebbe molto piacere».

Ho chiuso il libro ed ho cominciato a trafficare con il materiale d’arrampicata nello stanzino degli attrezzi. La mi imbragatura era appoggiata immobile, ancora sporca di terra e sangue, sullo scaffale su cui l’avevo buttata il 21 Maggio, quando a notte ormai fonda ho riportato a casa Bruna dal pronto soccorso. Quell’imbrago è il regalo di Ivan e Josef e, giusto un’anno fa, era coperto di birra e zucchero per i festeggiamenti del mio compleanno.

Bruna ha subito capito che ero di nuovo vittima della stessa ansia che mi monta prima di una grande salita. Da un lato era preoccupata per la mia inquietudine e dall’altro era contenta che mi fossi scosso, che avessi deciso di andare di nuovo ad arrampicare seriamente. Io avrei voluto trascorrere una serata avvolpacchiato sul divano con lei, ma non la smettevo di andare avanti ed indietro camminando pensieroso tra le varie stanze. “Gianni Mandelli, la Nord del Moregallo, sono fuori forma…che guaio!” Avrei potuto dire di no, ma una parte silenziosa di me era sfrontatamente felice di aver accettato.

Dopo il Pizzo d’Eghen non ho più affrontato una grande parete, forse anche perchè, dopo oltre un anno, il buon Mattia non ha smesso di infastidirmi con questa storia di recuperare i chiodi abbandonati nel camino. Ancora in questi giorni una pericolosa bobina da 100 metri di statica aleggia pericolosa nell’aria come una temibile spada di Damocle. Il mio socio continua a ripetermi che serve “a farmi risalire in sella” ma sono ormai convinto che sia lui a dover esorcizzare qualcosa su quel roccione sperduto. Ritrovarsi alla base della parete Nord era quindi qualcosa di assolutamente imprevisto ed inaspettato.

Gianni è come sempre una persona tra le più disponibili e gentili che si possa incontrare. Con naturalezza mi affido a lui come un’allievo diligente, ascoltando i suoi racconti ed i suoi consigli. Lo osservo rimontare il primo muretto che dal canalone centrale conduce fino alla prima cengia erbosa. I suoi movimenti sono fluidi ed eleganti, con estrema naturalezza passa oltre. “Accidenti quanto è forte!” Sul quel muretto, nascosto al suo sguardo, faccio i primi test di funzionamento per capire come sto, come arrampico. Il nuoto ha sciolto molte tensioni ma non ho sensibilità nel gestire la forza, ogni movimento consuma più di quanto produce.

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Sulla prima grande cengia i dubbi in parte si dissolvono. «Avevo sempre voluto arrivare quassù!» Guardo i diedri della OSA e tutto il Moregallo da un punto di vista sconosciuto. Mi piace. Gianni inizia ad arrampicare su “Tempo Perduto”, la via aperta da Giulio Zappa, uno del versante nord dei Corni, un amico d’infanzia. L’attacco è in un diedrino fessurato e ben appigliato, sembra promettente nonostante la quantità di parete che ancora ci sovrasta.

Gianni arriva in sosta e mi chiama a salire. Mi infilo nella fessura del diedro ed arrampico sereno, sfruttando i piedi e salde prese salde. Mi piace, mi sento bene e sono felice. Arrampico leggero cercando di fare bella figura.

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Gianni riparte, allegro e sereno, rimonta il tiro successivo e scompare alla mia vista oltre un’altra cengia. Attraverso l’eco che rimbalza tra le pareti del canalone centrale riesco a sentire il suo “Molla tutto!”. Qualche attimo in cui la corda si mette in tensione e rimbalza il suono del mio “Vengo!”. Mi alzo, ma qualcosa cambia, forse ho frainteso il movimento, sbagliato l’ingresso. Lavoro male con i piedi, tiro con le braccia su prese sempre più piccole e posizioni scomposte. Mi sale una certa ansia mentre inizio a sbracciare sulla roccia come qualcuno che affoga. Continuo a muovermi cercando una posizione che mi dia il tempo di allungare il fiato corto, ma la gravità comincia a prendere il sopravvento della situazione.

Finalmente poggio i piedi in una frattura che mi sembra grande come una terrazza e mi fermo “Lavora bene Birillo, così non va! Lavora bene!”. Rimontato il muretto devo fare un traverso verso destra superando roccette invase dall’erba. Non è un bel passaggio ma è di quelli che mi piacciono, quelli che mi riescono. Traverso e poi rimonto un muretto attaccandomi ai ciuffi d’erba ed ad una piccola pianta. In ginocchio raggiungo la piccola cengia erbosa in cui mi aspetta Gianni.

«Il primo tiro mi è piaciuto molto, questo invece l’ho subito un po’ troppo.» Josef una volta è stato molto chiaro e diretto con me: “Birillo, il secondo di cordata non deve fare fatica mentre sale. Deve essere veloce e non deve stancarsi”. Già una grande verità in cui cercare rifugio. Non ne avevo abbastanza per stare dietro a Gianni in libera, dovevo sfruttare tutti i trucchi, muovermi con calma, senza troppo sforzo e sfruttare la corda come il “quinto appiglio”. L’avevo fatto un sacco di volte, il prossimo tiro sarebbe andato meglio. Ma quando Gianni riparte le mie speranze vacillano, il tiro rimonta uno speroncino e poi inizia un lungo traverso obliquo verso destra a cui segue un lungo contro-traverso verso sinistra. Nel mezzo un passaggio di VI+ (A0) in traverso su appigli ed appoggi piccoli e sfuggenti. Quando Gianni arriva in sosta l’attrito rallenta le corde: purtroppo non ho trucchi validi in una situazione simile.

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Raggiungo il chiodo sporgente su cui si azzera e mi attacco come un primate mentre tutto il corpo sembra voler sbandierare verso destra. Sollevo i miei ottanta chili diritto sul chiodo utilizzano una fettuccia a modi pedale ma la mia situazione non migliora di molto. Devo sganciare il chiodo ed alzarmi ulteriormente prima di traversare verso destra. La corda, obliqua verso l’alto, sembra tutt’altro che amica questa volta. La prospettiva di un pendolo nell’ignoto si fa concreta ed agghiacciante.

Ho azzerato di forza e le braccia sembrano vuote mentre la mia posizione è priva di equilibrio. “Cazzo, cazzo, cazzo…”. Devo muovermi, mi sgancio dal chiodo ed inizio un cammino di fede. I motori al massimo urlano mentre mi aggrappo a prese improbabili, mentre i piedi vagano sulle dune. Un movimento, due. Tutti gli allarmi suonano ma continuo a spingere ed il mondo accellera facendosi sempre più piccolo. Allungo un braccio su uno spigolo che sembra vivo (ma è smussato), allungo anche il secondo braccio, sono disteso verso l’alto con il corpo ad “elle” mentre cerco di contrastare l’attrazione malefica del pendolo sul mio bacino. Devo riuscire, devo riuscire ad alzarmi e riposizionarmi “DAI DAI DAI!” Per un secondo ci credo, forse funziona, dai! Poi niente, volo: sono nel vuoto.

Di isitnto le mani afferrano la corda davanti a me mentre volo via nel vento verso destra. Sento l’eco del mio urlo mentre la corda si tende. Prima che la mia corsa si arresti la corda va in tensione e salta un chiodo a monte del punto si sospensione che allunga ancora il mio viaggio. Come un’elastico teso le corde cantano sulla asperità della roccia mentre il mio corpo cerca la verticale.

E’ stato Galileo Galilei ad osservare e definire le leggi del pendolo fisso, parte dello studio con condusse a verificare la teoria copernicana. Tipo interessante Galileo, tutti lo ricordano perchè ha “spacciato per suo” il canocchiale (in realtà non fu una sua invenzione), per la sua famosa “abiura” (eppur si muove) ma la maggior parte della gente dimentica che è stata la sua cociutaggine ribelle, ormai contestato da tutti i poteri forti, a partorire ultra-ottantenne il suo più grande lascito all’umanita: il metodo scientifico.

«Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato.» Ed eccomi qui, al centro del mio mondo, appeso nel vuoto, finalmente in pace con le leggi di gravità che regolano l’Universo. Il Moregallo, la montagna sacra, mi ha buttato di sotto: non male come inizio!

Questo è il mio quarto pendolo. Il primo fu sulla C.R.Is alla Parete Fasana al Corno Centrale: stava grandinando in placca e sono passato di sotto. Il secondo sul penultimo tiro di Valbrona89, al Corno Occidentale: mi sentivo forte su placca, i Corni hanno rimarcato il contrario. Il terzo sull’uscita del Pizzo d’Eghen: placca in tempesta, placca funesta. Il quarto sulla Nord del Moregallo: puoi imparare a suonare la batteria in quattro mesi oppure in quattro anni, il numero di battute che devi fare resta sempre lo stesso. Io probabilmente non ho ancora finito le mie battute.

«Gianni! Come stiamo messi?! Siamo in sicura?» Gianni dall’alto mi osserva per nulla impressionato mentre sono a penzoloni «La sosta qui è una bomba. Stai tranquillo. Solo in mezzo un chiodo è saltato, estratto quando la corda si è raddrizzata verso l’alto.» Non credo di aver sbattuto, non sento dolori strani e tutti i sistemi paiono operativi. La roccia davanti a me sembra anche migliore… forse ora ce la faccio a salire.

Cerco di ritrovare una posizione ma le braccia sono saltate. Non riesco a tenere una presa più piccola di un maniglione antipanico ed anche su quelle non riesco ad alzarmi. Lavoro incastrando i pugni in una grossa spaccatura trasversale mentre le concrezioni graffiano gli avambracci. «Non ne ho più nelle braccia. Provo ad alzarmi fino a raggiungere la verticale. Poi però non so cosa fare: senza quel chiodo rischio di fare un’altro bel pendolo mentre cerco di raggiungerti.» Gianni non è nè preoccupato nè contrariato, la sua serenità compensa il senso di inadeguatezza che mi minaccia alle spalle. «Tranquillo, se non ne hai più posso calarti fino alla cengia.»

Battuto e respinto, B&R come usa dire qualcuno. Tre tiri e mezzo su cinque: non c’è appello. Provo a segnare almeno il punto della bandiera «Vedo di alzarmi e recuperare almeno i rinvii prima del traverso». Questo prevede che io poi debba gestire un pendolo controllato ma almeno evito che tale compito spetti a Gianni mentre scende. Con fatica estrema mi alzo, recupero il materiale e, coordinandomi con Gianni, riprendo la verticale scendendo fino alla cengia erbosa. Gianni attrezza la sua doppia con le corde ancora in un paio di rinvii, si cala in un piccolo traverso verso destra, recupera il materiale e mi raggiunge sulla cengia.

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«Che vergogna! La prima volta che arrampichiamo insieme e combino ‘sti numeri! Ti ho rovinato la salita, scusami.» Gianni ride divertito «Questo è un posto bellissimo in cui sono stato molte volte. Non hai rovinato nulla, è stato comunque un piacere arrampicare qui oggi. Questa roccia è bellissima ma non è semplice.» Rincuorato inziamo a chiacchierare organizzando le doppie. Le calate lungo la parete nord sono di per sè una piccola ma intensa esperienza!

Giunti alla base rifacciamo gli zaini e, liberi dall’incognite dell’arrampicata (almeno per me), iniziamo a perderci in racconti e discorsi. Scopro infatti che il mio strampalato progetto di risalire lo zoccolo della Nord per superare la parete attraverso il canale sommitale non è poi tanto strampalato. Gianni e Franco Tessari hanno infatti già percorso quel tracciato e tutte le mie ipotesi e supposizioni trovano conferma in quanto hanno osservato durante la loro salita. Ma non solo. Anche loro, in gioventù, si erano esercitati “al misto” utilizzando ramponi e piccozza sui verticali prati dalla Nord. «Quando in inverno l’erba diventa gialla e si appiattisce qui puoi imparare molto bene ad usare i ramponi, magari quelli non troppo belli, e come affrontare i passaggi di misto con la picozza.»

Certo, sono volato giù dalla Nord ma la possibilità di chiacchierare con Gianni in quell’ambiente valeva la figuraccia. Uno scossone, alle volte, è quello che serve quando la lucità vacilla: pare che per i miei imminenti 40 anni mi sia regalato qualche istante di vita accellerata!

Davide “Birillo” Valsecchi

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