La Parete Fasana, il verticale versante NE del Corno Centrale: all’improvviso quello che appare un ripido pendio erboso precipita in un dirupo che scuote i polsi ed il cuore di chi si avvicina al suo ciglio. Il fascino che esercita su di me quest’anfiteatro di roccia è sempre più forte e vibrante.
Ogni volta che passo da quelle parti scopro qualcosa, una traccia o un segno che poi ricerco nei libri o nelle vecchie relazioni alpinistiche. “Chi arrampica sui Corni arrampica ovunque!” Questo è ciò che i vecchi (e forti) alpinisti raccontano di queste montagne dalla roccia quasi sempre o troppo compatta o molto delicata, sempre umida e dagli appigli al contrario.
La Fasana è considerata poi una ghiacciaia: ”l’esposizione di questa parete e il clima particolare della zona favoriscono le scalate solo pochi mesi durante l’anno, ed in alcuni casi quando il clima sembra accettabile altrove, su questo versante diventa proibitivo”.
Ogni volta che passo da quelle parti alzo il naso e guardo in alto: “Potevo nascere altrove ma sono nato qui. Non so se sia stata sfortuna o buona sorte: tocca essere all’altezza delle montagne a cui si appartiene”. Potrei fare finta di nulla, dedicarmi a mete più ambite ed accessibili ma dubito che potrei provare lo stesso affetto e la stessa passione che sento ora guardando questa parete per me inacessibile.
Poco più avanti, sul corno Orientale, c’è una via che fu dedicata a mio nonno e che ne porta ancora oggi il nome (Luigi Paredi): da queste parti è un po’ come essere in famiglia. Un luogo magico e solitario: in pochi vengono ad arrampicare quassù, dove tutto è magnifico e terribile.
Salgo lungo la cresta erbosa e mi sdraiato a terra strisciando con attenzione (e timore) verso l’abisso. La prima, irrazionale, sensazione è che tutta la cornice di roccia ceda all’improvviso trascinandomi nel vuoto. Ingoio la paura e mi spingo oltre.
Sopra di me appare la coppia di grossi corvi che hanno preso dimora qui. Gracchiano, volteggiano ed uno di loro si appoggia sulla cresta opposta. Al di là dell’abisso mi osserva e la sua presenza quasi mi rincuora: non sono più solo.
Intravvedo il fondo della parete ma non riesco a spingermi oltre, a mente cerco di capire la mia posizione rispetto alla roccia sotto di me. Sono quasi sulla verticale del pilastro minore e sul fianco dell’imponente tetto di roccia che sporge nella parte alta e centrale della parete.
Punto la macchina fotografica, apro lo zoom ed inizio a studiare quella porzione di roccia tanto impressionante da basso. A 110 dal suolo la roccia si fa compatta e sporge in avanti, la macchina fotografica mi mostra i chiodi che si intravvedono ad occhio nudo.
“Accidenti…” Quei chiodi sono stati posti negli anni 60. Schegge di memoria poste nella roccia. Probabilmente nessuno o quasi è passato di lì negli ultimi 40 anni, probabilmente nessuno oggi affiderebbe la propria vita ai quei pezzi di metallo incastrati a mano con martello e punteruolo. “… quanto mi piacerebbe poterli toccare…”.
Davide Valsecchi