Anima nel vuoto

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La Cassin al Medale non sbuca in vetta, ma esce sulla destra seguendo una cengetta, prima della quale ci si slega. Parto io, mi segue Diego, chiude Beppe. Subito sento un rumore sordo, una botta attutita. Mi giro: siamo in due, il Beppe non c’è. Scendiamo a rompicollo. Dico a Diego di andare da Zaccheo per dare l’allarme mentre io perlustro il ghiaione ai piedi del Medale. Lo trovo quasi subito. Giuseppe Verderio, classe 1944, da allora riposa al cimitero di Vimercate.

Voglio, devo, fare qualcosa per ricordarlo. Fin da subito ho chiaro dove: quello strapiombo che tante volte avevamo osservato dalla SEV porterà il suo nome.

Primo novembre 1969. Alla Bocchetta di Leura vi è un gruppetto di tende ed un fuoco per scaldare l’aria. Il giorno dopo scendiamo alla base della parete nord-est. Girato l’angolo si erge un pilastro. Attacco. I primi tiri di corda non sono proprio il massimo, per via di tutta quell’erba che c’è in parete. Alla fine del terzo tiro supero un bel passaggio su roccia ed eccomi alla sosta. Sorpresa! Nella fessura che qui ha inizio vi sono alcuni chiodi. Sono vecchi, è vero, ma ci sono! Non mi resta che salire e capire dove portano.

Dopo una decina di metri ne vedo uno alla mia sinistra, in direzione del “naso”.  Ho incrociato, per pochi metri, la “Stella alpina”, una via aperta anni prima da Giuseppe Crippa e Giuseppe Arosio (neppure la citata guida dice quando).

Guardo verso l’alto: due strisce nere d’acqua scendono parallele. Salirò in mezzo a loro, sul grigio. Il passaggio che segue, fatto completamente in libera e con gli scarponi rigidi – così si usava allora – è rimasto tra i miei ricordi alpinistici. Un pilastrino dove mettere un chiodo di sicurezza ed una cengetta inclinata verso il basso è quanto offre il quarto posto di sosta. Preparo il tiro successivo salendo un po’ di metri su chiodi a pressione (la roccia è compatta, senza buchi né fessure), poi decido di buttare giù le doppie.

Tre novembre. Eraldo si ritira dalla partita. Io e Diego raggiungiamo l’ultima sosta di ieri. Il nostro cielo ha il colore dello strapiombo, tondo, compatto (ma quanti metri esce?). Di salirlo in arrampicata non se ne parla nemmeno.  O si lascia perdere e si torna a casa, oppure lo si chioda a pressione. E così faccio, dandoci dentro con martello e punteruolo.

Dopo una quindicina di metri un chiodo esce dal suo buco. Io ci sono appeso, i piedi nel vuoto. Diego si è distratto e non mi sta facendo sicurezza. Volo.

Incredibile ma vero, non provo né panico né angoscia. Vedo soltanto il ghiaione, circa 200 metri più sotto, venirmi incontro velocemente. Un attimo prima dello strappo delle corde (un chiodo ha tenuto!) rivedo la mia vita in una frazione di secondo. Pendolo nel vuoto. Le corde s’intrecciano. Tolgo dalla tasca due cordini, faccio due Prusik e risalgo sulle corde fino alla sosta. Due paroline “di conforto” all’attonito amico, poi riprendo a salire.  Il mio volo è stato di (circa) venticinque metri; giorni dopo, una volta rientrato a casa, scoprirò di avere due costole incrinate.

Ad una trentina di metri dalla sosta comincio a spostarmi verso destra, dove intuisco una possibilità d’uscita. Nella parte terminale, dove l’esposizione nel vuoto è massima, provo l’ebrezza di vedere che alcuni chiodi – su cui ho appena sostato, appeso al tondeggiante soffitto come un salame – fuoriescono dalla roccia per scivolare lungo la corda.

Una cosa mi è chiara: indietro, tanto facilmente non si torna. Devo assolutamente uscire da questo vuoto. Una crepa nella roccia – la prima in quaranta metri – mi permette di piantare un chiodo, ma dal suono capisco che è solido quanto un panetto di burro al sole.

Metto un chiodo e mi ci assicuro e… adesso che faccio? Ricapitolo: sotto, lo strapiombo si è parzialmente schiodato; dove sono io la sicurezza è al suo minimo storico (il chiodo che ho piantato lo devo considerare mezzo dentro o mezzo fuori?); posto per sostare in due neanche a parlarne.

Penso: se mentre mi raggiunge il Diego esce un altro chiodo e vola in fuori, è sicuro al cento per cento che mi strapperebbe da questa malsana posizione. E il rischio che tutto possa accadere è davvero tanto. Devo decidere in fretta, e lo faccio: piano piano, misurando i gesti, mi slego dalle due corde ombelicali che mi uniscono al compagno, quaranta metri più in basso.  Le vedo scivolare veloci attraverso i moschettoni. Adesso sono qui, sull’orlo dello strapiombo, solo e slegato.

Una decisione suicida questa? No. Mi sono detto: se mi slego, con le due corde Diego può scendere in doppia fino ai piedi della parete, poi risalire per sentiero alla bocchetta di Leura e da lì cercare, con il mio aiuto, la direttrice sa cui calare le corde e farmi sicurezza mentre esco dalla via. E così è stato. Sotto un cielo più rosso che blu abbandono questa parete-frigorifero.

Ma non può finire così. Sei giorni dopo, io e Diego siamo di nuovo ai Corni, avvolti nella nebbia. Dopo aver cercato invano un posto dove attaccare le corde per la doppia, d’accordo con lui decido che io solo mi calerò dall’alto, assicurato a spalla, fino alla sosta sul bordo dello strapiombo. Da qui risalirò gli ultimi trentacinque metri in arrampicata solitaria. Le difficoltà non vanno oltre il quinto grado. Un traversino a sinistra e rivedo l’amico.

Ha ripreso a nevischiare. Foto ricordo. Simo soli. La via dedicata alla memoria di Giuseppe Verderio adesso è davvero finita. E’ il nostro ultimo legame terrestre. Il nostro piccolo monumento.

Giancarlo Mauri
(estratto da “Arrampicare ai Corni” pubblicato su “L’Isola senza Nome: storie di uomini e montagne”)

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