Il nuovo paziente della “premiere chambre” entra accompagnato da un’altera infermiera di colore, viene fatto sedere sul letto e lasciato lì ad attendere l’arrivo del dottore. Fuori, sotto il sole, è ancora lunga la coda per le visite all’ambulatorio: il dottore non arriverà prima di due ore.
Cerco di inquadrare il ragazzo, di capire cosa abbia mentre in silenzio traffica impaurito con qualcosa nella tasca. Avrà undici, dodici anni. E’ completamente lercio ed impolverato, indossa dei calzoni troppo grandi stretti da una cintura di finta pelle ormai logora, ai piedi un paio di annerite ciabatte di plastica rosa. Ciò che colpisce di lui sono gli occhi: incassati dietro palpebre abnormemente gonfie e sporgenti, palpebre che deformano il viso e che lo rendono quasi cieco, palpebre che continuano a lacrimare incrostando di pus e sporcizia le ciglia.
Provo a salutarlo ma la sua risposta è un flebile sospiro. Gli chiedo di ripetere ma il risultato è lo stesso. Mi avvicino ancora ed inizio a sentire il sibilo del suo respiro, un rumore lento e costante interrotto solo dal rantolo dell’inspirazione. E’ tormentato da una terribile asma, sembra che senza fine continui a sgonfiarsi sibilando: questo è il suono che emette senza pausa.
Si muove lentamente, segue il ritmo trascinato del suo respiro ed osservandolo vedo le bruciature sulle braccia, le cicatrici sui gomiti. Sul letto l’infermiera ha lasciato un foglio con i suoi dati scritti in francese. Il nome è impronunciabile mentre il cognome è “Gracia”. Mi sarebbe piaciuto infilarlo sotto la doccia, dargli una ripulita e cambiargli i vestiti ma dai rubinetti ancora non arriva l’acqua. Provo a parlargli di nuovo in francese ma senza alcun risultato: pare conosca solo il lingala.
Aspettando che torni l’acqua agguanto un secchio, attraverso la pediatria e lo riempio alle fontanelle delle cucine comuni. Sulle via di ritorno incontro Padre Hugo e gli chiedo di “Gracia”. Lui, con il suo accento spagnolo, mi risponde parlando un po’ in francese, un po’ in inglese ed un po’ in italiano: “E’ stato abbandonato. E’ arrivato da noi due giorni fa ma ora è all’ambulatorio per l’asma e per gli occhi” Io credevo avesse qualche sorta di deformazione al viso ma Padre Hugo continuando a raccontare mi spiazza: “Gli hanno buttato negli occhi qualcosa perchè dicono lui sia uno stregone. Poi lo hanno abbandonato, buttato via”.
Mi racconta anche come “Gracia” sia un nome tipico dell’Angola ed è da lì che probabilmente proviene il ragazzo. Mi dà la chiavi della piccola doccia vicino al magazzino in modo che possa lavarlo e mi indica dove trovare dei vestiti puliti per cambiarlo.
Torno alla “premiere chambre” e chiedo ad una mami di tradurmi dal francese al lingala. Voglio che spieghi al ragazzo di seguirmi e che lo porto a lavarsi. Lui smonta dal letto e sibilando per l’asma inizia a camminarmi a fianco.
Quando nella stanza della doccia gli faccio segno di svestirsi fruga nelle tasche impugnando un paniere di stoffa pieno di briciole ed uno sgualcito e sudicio pugno di banconote: probabilmente tutti i suoi averi. Con tristezza comprendo la sua paura e con grande lentezza prendo le sue banconote e le appoggio sul bordo del lavabo in modo che possa vederle. Gli metto tra le mani un pezzo di sapone ed una pezza di stoffa, apro l’acqua della doccia ed inizio ad aiutarlo a lavarsi.
L’acqua fredda aggrava il fischio della sua asma, mentre lo riempio di sapone studio le numerose cicatrici, vecchie e nuove, che ha su tutto il corpo. Gli passo la saponetta sui corti riccioli della testa e cerco di sciacquarlo senza mandargli la schiuma nei martoriati occhi. Lo lavo, lo asciugo e lo rivesto.
Con molta gentilezza gli restituisco le sue banconote ed aspetto che le riponga nei suoi nuovi pantaloni. Forse è troppo grande ma gli porgo lo stesso la mano per accompagnarlo: lui accetta, la stringe ed iniziamo a risalire la collina lungo il camminamento principale.
La ripida salita è un calvario, il ragazzo si ferma ogni dieci metri per riprendere fiato mentre l’asma gli blocca il respiro. Ogni pausa è una pena, lui si piega in avanti, si appoggia a qualcosa e sibila cercando di pompare ossigeno attraverso i polmoni. Cerco di fargli coraggio, lo sostengo e gli lascio tutto il tempo che gli serve.
Lo guardo e vedo la sua debolezza, la sua fragilità quasi imbarazzante. Uno scricciolo che a mala pena riesce a respirare, inoffensivo e vulnerabile: la vittima perfetta per uomini senza scrupoli. Lo hanno torturato in virtù di qualche assurda credenza che in realtà nasconde solo cupidigia e crudeltà. Sedicenti santoni ed esorcisti si sono accaniti contro l’unico che non possedeva la forza per difendersi, l’unico che non avrebbe potuto opporsi ai loro fasulli riti magici che hanno la pretesa di scacciare la malasorte ed il maligno in cambio di denaro.
Uomini di magia, stregoni e mistici: chissà se avrebbero avuto la stessa baldanza anche davanti ad un vero demonio? Chissà se davanti ai miei occhi azzurri avrebbero avuto l’ardire di fare a me ciò che hanno fatto a lui? Sento la rabbia crescere e farsi strada furiosa. Resisto e la lascio fluire nello spazio di un respiro: non è per questo che sono qui, non è questo ciò che devo fare adesso.
Stringo un braccio attorno a Gracia, lo aiuto a raddrizzarsi e ripendiamo la salita. Ciò che devo fare ora è superare un penoso gradino alla volta, raggiungere un letto nella “premiere chambre” e lasciare che il tempo e le cure lavino il ricordo di un’ignoranza che rende ciechi.
Davide Valsecchi