Come e perchè in questi ultimi mesi io riesca ad andarmene costantemente “a zonzo” per le nostre valli rimarrà forse un mistero ancora a lungo, questo sebbene vi sia un motivo piuttosto nobile e di cui poter esser soddisfatto. Non sempre però è bene raccontare tutto e quindi per ora posso condividere con voi, che spero seguiate questo mio piccolo blog con affetto, solo ciò che scopro sul nostro magnifico territorio.
La mia esplorazione mi ha portato ancora nella piana di Valbrona ed in particolare ad Osigo, il centro del paese. A ridosso del cimitero si alza uno sperone di roccia coperto di piante e vegetazione che prende il nome di Ceppo della Forca. Mi piacerebbe fantasticare raccontandovi qualche leggenda sulla Roccia dell’Impiccato ma credo che l’origine del nome sia più semplice e legata alla “forca”, o forcone che dir si voglia, e ai tanti prati ed animali al pascolo che ancora oggi sono presenti sul promontorio. A volte il termine forca, nel nostro dialetto, indica anche un bivio ma in questo caso non capisco a quale potrebbe riferirsi.
Partendo da Osigo mi sono infilato tra le stradine salendo poi lungo uno scolatoio per l’acqua piovana arrivando così al vecchio Ristorante Belvedere. La strada più semplice, ad onor del vero, è quella che risale dal cimitero ma è di certo la meno avventurosa.
Il ristorante è ormai abbandonato a se stesso ma guardando la grande terrazza, da cui si gode uno scorcio sull’intera valle, si può capire come un tempo questa fosse una nota balera dove furoreggiare nelle notti d’estate. In un angolo ancora si scorge l’ampio bancone che, affacciato sulla terrazza, fungeva da bar all’aperto: un peccato che ora siano i rovi e non più la musica a farla da padrone.
Al fianco del ristorante prende avvio una vecchia mulattiera in ciotoli che quieta, senza strappi, inizia a salire sul lato del Ceppo. Se la gioranta non è umida la passeggiata su questi vecchi sassi è agevole e per nulla faticosa. Era ormai mezzo giorno quando passavo di lì ma il fitto del bosco mi proteggeva dal caldo ed una piacevole frescura accompagnava i miei passi.
Oltre i muri che cingono la mulattiera ci sono boschi inframmezzati di prati ben tenuti. Credo che in molti ancora si prendano cura della zona e qua e là non è raro incontrare animali al pascolo o piccoli orticelli. Io, quel giorno, ho incontrato cavalli, asini ed anche un grosso e setoloso maiale che pascolava pacifico sotto le piante. E’ proprio in questa zona che ho incontrato quella strana pianta senza radici di cui vi ho raccontato in Stranezze della natura.
La mulattiera continua a salire fino all’Alpe di Oneda da cui è possibile proseguire per i Corni di Canzo, per la Valcerrina o scendere verso Candalino. Se invece la salita non vi aggrada più, e come me quel giorno iniziate ad avere fame, è possibile seguire un sentiero che taglia verso nord e che si riconnette con la strada asfaltata che scende fino a San Rocco.
Il versante occidentale dei Corni di Canzo si è dimostrato ricco di itinerari che possono incuriosire gli appassionati o chi semplicemente vuole percorrere una breve passeggiata di un oretta o poco più.
Buona esplorazione!
Davide Valsecchi
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Ps: Le foto, lo ammetto, non sono particolarmente nitide ma in questi giorni mi sono lasciato trascinare dalla nostalgia e sto usando la mia vecchia Olympus µ-mini DIGITAL S, una fotocamera digitale del 2005, la prima che comprai in vita mia: una magnifica e fedele compagna d’avventura!!