Io e Dario, il mio maestro, eravamo al bancone del bar di Lambrate. Nonostante l’Inverno eravamo in ciabatte e sotto le giacche indossavamo ancora il Karate-gi, la divisa bianca del Karate-do. Eravamo sempre di corsa spostandoci da una palestra all’altra cercando di arrivare in orario per iniziare le lezioni. Quella sera eravamo in anticipo e ci siamo concessi, indifferenti al nostro inconsueto aspetto, almeno un bicchiere di birra per tirare il fiato.
Avevamo appena lasciato una classe di bambini tra i 10 e 15 anni. Erano bimbi speciali: erano affetti di disfunzioni fisiche e mentali ma nonostante questo riuscivano ad esprimere nell’allenamento, che vivevano come un gioco di gruppo, un grande entusiasmo. A gestire la piccola classe una giovane ragazza che praticava Aikido nonostante fosse priva dell’uso di un braccio. Noi eravamo andati in visita, lei e Dario erano buoni amici.
Mentre ingollavamo birra Dario, un omone di quasi due metri, attacca con uno dei suoi discorsi:“Vedi Birillo, quei ragazzini mi danno sempre da riflettere” mi disse “In Oriente sono convinti che ci si rincarni vita dopo vita perché il nostro spirito si evolva attraverso l’esperienza. Quando vedo quei ragazzini mi rendo conto che la loro vita, la lora esperienza, è molto più dura della mia e forse questo significa che nel profondo sono molto più evoluti di me.” Sospirando con un sorriso malizioso tirò un fiato di birra “Nella grande ruota noi, che ci vantiamo della nostra forza, siamo come bambini all’inizio del nostro viaggio mentre loro sono vicini alla fine”
Quando il mio maestro si fa serio, quando non parla di donne o non si diverte a mettermi in imbarazzo di solito nasce una sfida tra noi: dissemina il discorso di trappole e se ne sta a guardare cosa combino. La sera prima si era presentato in palestra un gigantesco egiziano di vent’anni, aveva la borsa d’allenamento piena di pergamene di presentazione e titoli vinti nel suo paese. Voleva allenarsi ma nessuno delle cinture nere si era prestata al confronto preferendo non correre rischi. “Dai Birillo, vieni tu!” Aveva semplicemente detto Dario. Mi sono sempre piaciute le sfide più grandi di me, battermi al limite delle mie “probabilità“.
Dario stava stuzzicando il mio orgoglio: “Può essere” gli risposi “Forse però non siamo meno evoluti, semplicemente la nostra forza è lo strumento con cui dovremmo affrontare sfide ancora più dure. Abbiamo questa forza non perché siamo più deboli ma perché dobbiamo raggiungere uno scopo.” Il sorriso di Dario si fece ancora più compiaciuto e trionfante dietro il bicchiere, mi aveva portato esattamente dove voleva arrivare: “Bravo Birillo, ma ora che hai visto la loro forza saprai far buon uso della tua?” Si può rispondere, in modo onesto, ad una domanda simile?
Ero a Kigoma, in Tanzania, quando mi è tornato alla mente quest’episodio vecchio di quasi dieci anni. Ero seduto in una lercia veranda di un malandato ristorante. Insieme ad Enzo e a due tedeschi stavo mangiando Red Snapper alla griglia e patatine fritte. L’aspetto del pesce era orribile quasi quanto il gusto e nonostante la fame mi sforzavo di mangiare quella schifezza.
Lungo la strada polverosa vedo passare un bambino dall’età indecifrabile. Era tutto curvo con la testa incassata nelle spalle mentre teneva le mani vicino al petto gesticolando e parlando da solo. Camminava con gli occhi semi chiusi con un sorriso permanente nonostante tutto nel suo corpo esprimesse supplica e sottomissione. Ho cercato di inquadrarlo mentre tutta la gente in strada lo evitava: il ragazzino era evidentemente affetto da problemi mentali ed in Africa, dove questo tipo di malattie non sono nemmeno riconosciute, è una condanna a sopravvivere come un emarginato.
Non smetteva di sorridere trasmettendo gioia nonostante la sottomissione che, forse volutamente, esprimeva in tutti i suoi gesti contratti. Pensavo stesse in qualche modo fingendo un ruolo, peraltro giustificabile, ma era realmente autentico: ho visto un bimbo “fuori sincro” con il mondo che nonostante la sua terribile condizione, di cui era inconsapevole, era pervaso da una vera gioia, non stava fingendo bensì nel “suo mondo” si stava semplicemente adattando. Chiedeva, ridendo e supplicando al contempo, quello che gli serviva perchè quello era l’unico modo che l’esperienza gli suggeriva, nessuna premeditazione o ipocrisia.
Tutto in lui sembrava chiedere pietà ma il suo sorriso dietro quegli occhi chiusi e quel corpicino contratto mi catturava. Mentre lo guardavo incurisito la padrona del locale uscì allontanandolo in malo modo. Non sapevo ancora cosa fare e quindi non feci nulla, mi limitai ad attendere.
Il mio appetito era ormai scomparso e nel mio piatto c’erano ancora un buon numero di patatine e mezzo pesce. Avevo perso di vista il ragazzo quando ho sentito tirarmi i capelli (che per i Sikh rappresentano la sede della forza spirituale). Non avevo avvertito nessuna minaccia e girandomi me lo ritrovo davanti mentre rideva. Quello scricciolo era sgattaiolato dentro la veranda arrivandomi alle spalle senza farsi sentire: ora aveva la mia piena attenzione mentre con infinita semplicità indicava il mio piatto. Quando la padrona si è avvicinata ostile l’ho fulminata con lo sguardo mentre appoggiavo il mio piatto sul tavolo vicino.
Il piccolo, che non toccava terra seduto sulla sedia, ha cominciato a mangiare con le mani le patatine ed il pesce rimasto mentre lo guardavo sempre più incuriosito ed affascinato. All’improvviso si è alzato, sempre “fuori sincro” con il mondo, per prendere il sale: era “altrove”, in posti dove non potevo raggiungerlo. Non riuscivo a comunicare verbalmente con lui, non parlava e si esprimeva a gesti sempre sottomesso, ma inconsapevolmente era presente nel suo mondo che, da fuori, non era di sicuro il mio.
Ho ordinato una tazza di frutta a pezzi, ne ho mangiato metà e poi allungato la scodella al piccolo che aveva finito il pesce. Probabilmente non gli piaceva la frutta o semplicemente non avvertiva più la fame perché si è alzato e saltellando come uno gnomo se ne è andato con la stessa rapidità con cui era apparso. Avevo dato a lui quello che non mi serviva e per questo non c’era bisogno che mi ringraziasse.
Poi sono scoppiato a ridere divertito finendo la mia frutta: da piccoli ci insegnano che non si lascia il cibo nel piatto perché i bimbi in Africa muoiono di fame. Io ne avevo appena sfamato uno facendo l’esatto contrario.
Davide Valsecchi