Bruna sta facendo colazione, ci siamo svegliati davvero tardi ed io sono al telefono con Ivan Guerini. Quando chiudo la telefonata la guardo con l’espressione più da duro che mi riesca e le chiedo «Bhe, com’ero?» Lei, con la bocca piena di cereali, risponde ridendo «Eri buffo! All’inizio quasi balbettavi!» Sigh…
Sabato mattina io e Mattia siamo al piazzale della funivia dei Piani d’Erna: ad attenderci Ivan, Giancarlo “Fantino” Bolis ed Giancarlo “Il Generale”. Anche “il Colonnello” è un valente arrampicatore ma oggi ha accompagnato in auto Ivan approfittandone per fare due passi sul Magnodeno.
Ivan, dopo la “Panzeri” della scorsa domenica con Joseph, vuole fare qualcosa di più tranquillo, di rilassante: «Dai, se asciugano le pareti vediamo di tracciare qualcosa di nuovo sul pilastro a destra della Parete Stoppani». Settimana scorsa inseguivamo la via mai ripetuta di una figura leggendaria, oggi invece, per rilassarci, andiamo a fare due tiri “là dove nessuno è mai stato prima”. Rieccomi ai confini della realtà…
Mentre risaliamo a piedi verso la Stoppani ci abbandoniamo alle chiacchiere. Giancarlo ci racconta aneddoti sui suoi amici o sugli alpinisti con cui ha arrampicato: è come sfogliare un album di figurine e la maggior parte dei nomi li conosco solo grazie ai libri!
Quando arriviamo sotto la parete Stoppani diamo un occhiata in giro, osserviamo le numerose vie a spit presenti cercando spazi vergini. Le parete sono state attrezzate da Delfix e, contrariamente a quanto mi aspettassi, Ivan e Gianka ci descrivono tanto i tiri quanto il mitico Delfino Formenti in modo davvero molto positivo. L’unico rammarico è che in molti non comprendano gli sforzi e l’impegno che richiede l’intensa attività di Delfino: chiedono senza dare e, soprattutto, credono che l’arrampicata si limiti ormai solo ai monotiri.
Scegliamo la nostra linea ed attacchiamo. Mentre Ivan “esplora” il primo tiro alcuni “climber” ci osservano dal sentiero che porta alle vie: corrono a “prendere il posto” agli attacchi ed è assolutamente evidente che ai loro occhi siamo un quartetto di mongoloidi che si sta infognando in mezzo alle piante. La cosa è tremendamente divertente: se sapessero chi è quel “vecchietto” in mezzo ai rovi la penserebbero in modo davvero diverso. Tuttavia, per cambiare idea, basterebbe che osservassero con quanta tranquillità e padronanza Ivan sta arrampicando nello sconosciuto, assicurato solo da lunghissime protezioni a friend e fettucce.
Ivan, dopo una ventina di metri, raggiunge un albero. «Non so… faccio sosta qui o mi alzo e la faccio più avanti a friend?» Una sosta a friend di Ivan vale due (forse anche tre) delle mie a chiodi ma, in fondo, io sono un coraggioso codardo e quindi tiro l’acqua al mio mulino. «Come vuoi Ivan, ma se prosegui poi non possiamo più nè vederti nè sentirti. L’albero sembra comodo…» Ivan mi guarda e ride: «Bravo Birillo! Facciamo sosta qui!»
Il primo tiro attraversa un cespuglio, schiva una pianta di rovi, rimonta una pila di sassi incastrati e si infila in uno stretto micro camino. La roccia è lavorata e buona, ripulito sarebbe un bel tiro godibile ma in queste condizioni tutto si fa più complicato. L’albero, però, è davvero comodo e la sosta una pacchia!
Il secondo tiro è più aperto e risale fino alla sommità del pilastro. Si affronta prima un coppia di belle pacche con una strepitosa fessura che da destra risale a sinistra permettendo di raggiungere una cengia. Da qui ci si sposta nuovamente a destra infilandosi sotto l’arco di un tetto curvo che si alza verso sinistra. Sotto la curva del tetto c’è una bella fessura in cui Ivan protegge a friend.
Il tiro è bello ma è vergine, con tutte le problematiche che comporta. Quando Mattia si avvicina alla base del tetto un muretto di sassi gli crolla sui piedi facendo un fracasso infernale (soprattutto per me che stavo una decina di metri sotto!). Senza danno Mattia rimpila i “bocci” del muretto e passa oltre il tetto.
Arrivo sotto il tetto bello carico ed ho voglia di godermelo. Osservo i sassi smossi da Mattia e cerco di capire se ci sia altra roba da evitare. Appoggio senza peso (giuro appoggio!!) la mano su una grossa scaglia e questa, senza alcun preavviso, si distacca dalla parete abbassandosi di un paio di centimetri. La mia mente “zoomma” sui quei due centimetri che per un istante riempiono tutto il mio universo.
Si è mossa ma è ancora magicamente sospesa sulla parete: larga il doppio di un asse da stiro è alta dalla mia caviglia fino a metà del mio costato (lo so perchè ci sono esattamente affianco!). Se si lascia andare prende in pieno la corda che mi lega a Giancarlo e, oltre a tirarmi a basso, c’è la possibilità che prenda anche lui.
“Okay Birillo” mi dico ”facciamo le cose per bene!” Alzo la corda di Giancarlo al friend successivo in modo che sia fuori traiettoria. Poi, scalvalcando in spaccata la scaglia, mangio il tetto con tutta la velocità e la delicatezza che possiedo. Raggiungo Ivan in sosta e gli racconto il fatto. Lui mi assicura e mi lascia abbastanza lasco di corda perchè riesca a sporgermi oltre il tetto.
Da quel punto posso vedere e parlare con Gianka raccontandogli della scaglia. «La corda ci sbatte contro?» Mi chiede Giancarlo da sotto «No, l’ho sistemata. Puo’ toccarla solo quando ci sei vicino. Fai attenzione!» Giancarlo non sembra affatto preoccupato. «Okay Birillo, l’ho vista». La supera, resiste alla tentazione di farla andare a basso, e ci raggiunge.
Quella dannata “asse da stiro” ha incrinato il mio equilibrio «Scusa Gianka, mi dispiace per quella scaglia». Lui ride e mi dice di non preoccuparmi, anzi, inizia a raccontarmi l’infinita serie di monoliti, tetti e scaglie che ha visto crollare in vita sua: il veterano e la matricola.
Ivan ci ascolta e sorride come sempre. «Volete tirarlo voi il prossimo tiro?» Io e Mattia sembriamo due scolaretti: per favore maestra non ci interroghi!! Ivan riparte, si alza di una decina di metri obliquando sopra un canale e poi, finalmente, piazza un cordino su un sasso che si muove. «Credo che gli inglesi lo chiamino “chock-rock”: il sasso si muove ma se lo trazioni con il cordino nel modo giusto tiene». Forse, per via del modo dubbioso in cui lo abbiamo guardato, Ivan piazza anche un chiodino, supera lo spigolo della placca e scompare alla nostra vista nel successivo diedro.
La corda scorre e la voce di Ivan si fa sempre più lontana. Non ho idea di dove sia Ivan e che cosa abbia trovato davanti a sè, la “sindrome del secondo” inizia a farsi strada tra i miei dubbi. «Gianka, ma tu come fai a fargli sicura così tranquillo?» Giancarlo, intento nei suoi racconti, mi guarda «Non devi farti carico delle difficoltà del primo di cordata. Non serve che tu cerchi di stressarti al posto suo. Se riesce a passare va avanti, se non ce la fa torna indietro. Mica è un bambo!» Il suo discorso non fa una piega, vorrei dirgli che non sempre è possibile tornare indietro, ma il fantasma di Preuss poggia la sua mano sulla mia spalla e mi sussurra all’orecchio: “Se hai inconsapevolmente superato il tuo punto di non ritorno allora sì che sei un bambo!”
Finalmente dall’alto arriva la voce di Ivan. Giancarlo riparte e, fin dove può, ci racconta le difficoltà elogiando la bellezza del tiro. Io e Mattia restiamo soli alla sosta: «Hey, Mattia, dici che gliela facevamo a chiudere da soli questo tiro?» «Bhe, ora che sappiamo che si passa forse sì, ma di sicuro ci sarebbero serviti un bel po’ di chiodi per proteggere!»
Poi tocca a me e Mattia. Io, dopo l’asse da stiro, mi piazzo per ultimo e lascio che la roccia lenisca le ansie del tiro precedente. Si risale fino allo spigolo e si scavalca infilandosi in una serie di bei diedri. C’è materiale mobile da non toccare ma procediamo leggeri e decisi. Alla fine dei diedri Ivan aveva piegato verso destra in modo da proteggere la sottostante sosta dalla caduta di eventuali sassi. Sulla destra aveva trovato un canale/camino attraverso cui aveva raggiunto il bosco e la “fine delle ostilità”.
Quando siamo tutti fuori dalla via sono solo le due e mezza, il sole è ancora alto e possiamo comodamente scendere verso la funivia per una birretta. Allegramente ci abbandoniamo alle chiacchiere e ai pensieri.
Ho sempre creduto che una “via” fosse una linea tracciata dagli uomini per gli uomini. Una specie di gesto di solidarietà attraverso il tempo così come lo è costruire un’ometto di sassi o lasciare una scatoletta di carne in un bivacco. Oggi invece avevamo tracciato una via che è esistita solo mentre noi la percorravamo e lungo la quale niente è rimasto del nostro passaggio. Un gesto assolutamente estemporaneo destinato a perdersi nella polvere del tempo. Non avevo mai fatto niente di simile, o quanto meno sulla roccia.
Spesso in passato mi è capitato di avventurarmi da solo nei boschi, al di fuori dei sentieri, con la chiara volontà di perdermi, di scoprire qualcosa di nuovo o di sorprendere qualche animale. Qualcuno, per via degli innegabili pericoli, lo riteneva un azzardo ma ero consapevole di quello che stavo facendo e nonostante le difficoltà non mi sono mai sentito a rischio. Ivan e Giancarlo si muovono sulla roccia con la stessa disinvoltura con cui io mi muovo nel bosco. Non è una questione fisica, ma di testa.
«Ivan, non credo di aver mai fatto nulla di simile sulla roccia. Come fai a trovare la strada, a non lasciarti bloccare dall’ignoto? Nessuno era passato prima di noi, non potevi sapere se era possibile passare.» Gli butto lì una domanda da niente mentre camminiamo sul sentiero «Devi pensare a salire, salire trovando il passaggio per uscire dall’alto. Certo, devi fare le cose per bene, ma non devi distrarti cercando di fuggire dalle difficoltà, o lasciare che queste ti schiaccino: è qualcosa che senza improvvisare piano piano si impara».
Al bar della funivia ci raggiunge anche il “generale”. Le birre si ammonticchiano sul tavolo: dicono servano a riequilibrare i sali minerali. Leggeri ci perdiamo in mille chiacchiere ed in mille racconti. Giancarlo, senza volerlo, cita il “Nuovo Mattino” di Motti ed aggiunge «Al di là delle filosofie in quegli anni per un operaio arrampicare era un modo di affermarsi. Lavoravano tutta settimana e nel week-end avevano la possibilità di dimostrare a sè stessi di essere ancora delle persone libere, non degli ingranaggi. Questo è quello che conta: non farsi male ed essere felici»
Per un istante penso al nostro povero paese, al modo in cui la cultura, o la non-cultura, riesce ad invadere ogni cosa. Una contaminazione che spesso minaccia anche l’arrampicata logorando un mondo, che dovrebbe essere di pura passione e libertà, con invidie, polemiche, rivalità, protagonismi e dogmi.
Tiro un sorso alla mia birra e sorrido. Se uno come me è riuscito ad aprire una via con Guerini la speranza è ben lunga dall’essere perduta: un cane sciolto può ancora essere fuori dagli ingranaggi!
Davide “Birillo” Valsecchi