Da Luglio accompagno, quasi ogni giorno, escursionisti per i nostri monti portandoli ad esplorare il territorio del Lario. Con questo sole di Novembre, forse l’ultimo prima della neve, il mio desiderio di “andare” si è fatto pressante e così sono sgattaiolato fuori casa per una “solitaria”.
Non si dovrebbe mai andare in montagna da soli, tutto diviene più difficile e più pericoloso, ma a volte si deve andare ed avere per compagno di viaggio solo i propri pensieri, uno zaino e un buon paio di scarponi.
Sono le dieci mentre attraverso il ponticello sul fiume Foce, appena sopra la cascata della vallategna. Le Grigne, all’orizzonte, sono già illuminate ma la valle al buio è ancora coperta di brina ghiacciata. Il sentiero è quello della dorsale di Cranno. In estate è un inferno rovente esposto al sole ma ora, in autunno, il calore dei raggi è una dolce carezza che accompagna la salita mentre la luce gioca con i colori delle foglie tra i rami spogli.
Il sentiero di Cranno è duro, sega le gambe senza un vero motivo. Attacca ripido senza lasciarvi prendere il ritmo fino al Sass da la Prèa, un enorme sasso erratico che a sbalzo sul vuoto crea il più bel balcone affacciato sulla piana della Vallassina.
La salita si acquieta un po’ e, sempre sul crinale, si sale fino alla “Madonna del Cai”, si attraversa piccole e luminose radure raggiungendo la Coletta dei Corni. Qui il percoso piega sul lato ovest della montagna riportandoci nel freddo abbraccio dell’ombra. La terra si fa dura e le foglie scricchiolano sotto gli scarponi ma lungo la via c’è un altra madonnina, “la Madonna di Cesare”, dove durante tutto l’anno sgorga una piccola sorgente. Riempio la tazza in acciao legata alla catena, ci saranno cinque gradi ma mi godo grandi sorsate d’acqua seduto nel silenzio del bosco.
Prima di spuntare sui prati di Pianezzo i Corni mi danno un assaggio d’Inverno: sono ormai le dodici passate ma dove il sole non è ancora arrivato tutto è gelato ed imbiancato. Stringo le mani nella giacca e supero il Rifugio della SEV costeggiando le scogliere del Corno Centrale, al di sotto del Pilastrino. Punto verso la croce del Corno Orientale illuminata da un promettente sole caldo.
Con i piedi a penzoloni sopra Lecco apro lo zaino e mi tuffo avido nel mio furgale pranzo: una michetta rafferma di pane, un po’ di speck in una busta con il faccione di Mesner, due mandarini ed una barretta di cioccolato. Lascio che il sole mi asciughi la schiena e che le gambe si acquietino: è una bella giornata, davanti a me il Moregallo e la Crestina Osa, più oltre il lago ed il Resegone.
Ritorno alla SEV ed imbocco il sentiero che porta al “Fontanino del 60°” e risale fino alle Moregge da dove inizia la salita alla cima del Moregallo. Guglie bianche si alzano nel fianco della montagna mentre si arranca passo dopo passo. Sembra di essere nella “valle dei cinque picchi”: è uno scenario magico di prospettive irreali. L’ultimo tratto, attrezzato con alcune catene di protezione, e poi si è sù.
La cima del Moregallo è speciale: abbarbicato tra le rocce c’è infatti un ampio prato verde quasi pianggiante che offre strepitosi panorami in ogni direzione. Un oasi di incredibile pace e tranquillità che domina il caos della sottostante Lecco, che risplende nei riflessi delle Grigne e del Coltignone, che si tuffa nel lago lanciandosi verso l’orizzonte e le grandi Alpi.
Cercando un buon appoggio per la macchina fotografica mi sono sdraiato supino sull’erba osservando l’orizzonte. Non vi è anima viva per chilometri attorno a me ed il silenzio è completo. Sospeso, immobile nella quiete assoluta, vago libero con la mente e gli occhi. Osservo posti conosciuti, posti dove sono stato e posti dove vorrei andare. Mi sento felice, privo di tensioni o pensieri, tanto distante dalla vita quotidiana da temere di non essere più neppure vivo. Niente fame, niente fatica ed il sole mi scalda. Mi lascio andare accarezzando un significato nuovo e più profondo per la parola contemplazione. Forse la morte è una giornata d’autunno in cui il nostro corpo giace tra l’erba, mentre il nostro spirito vola verso le montagne illuminate dal sole. Fosse così non sarebbe cosa da dispiacersi. Contemplare placidi oltre l’orizzonte scaldati dal sole, qualcosa per cui varrebbe la pena camminare una vita.
Le ombre dietro i Corni mi ricordano però che il tramonto è vicino e come l’abbraccio del buio e del freddo sia davvero meno confortevole. “In piedi ora!” parlo da solo, a voce alta per darmi forza, ma la mia stessa voce mi appare aliena in quel silenzio. Dove ero andato con la mente? Ero tornato in me? Nella mia macchina fotografica una piccola conquista: il piccolo ma agguerrito teleobbiettivo ha catturato il profilo del Finsteraarhorn, un quattromila nell’oberland bernese ad oltre 130km di distanza.
Ma è tempo di scendere, di tornare a casa, di smettere di vagabondare con la mente e con il corpo. Dicono che anno dopo anno stia diventando sempre più selvatico, più distaccato dalle cose: come posso spiegare ciò che vedo, ciò che per me è diventato importante? Sono sempre più “consapevolmente strano”, non c’è redenzione da questa strada e so cosa significhi per chi mi sta vicino.
Scendo in silenzio lungo il fianco del Moragallo, senza far rumore. Nella quiete dell’imbrunire mi ritrovo faccia a faccia con un branco di mufloni che attraversa il ghiaione delle Moregge e sale verso l’ultimo sole della vetta del Moregallo. Una ventina tra femmine e piccoli, sono guidati da un grosso maschio dalle corna ricurve che si ferma e mi guarda. Senza distogliere lo sguardo, restando in piedi immobile, afferro lentamente la macchina fotografica dalla fodera alla cintura e scatto un paio di foto prima che le femmine convincano il maschio a proseguire lungo la loro strada.
Sono ormai quasi le quattro del pomeriggio e d’autunno questo significa che è tempo di spicciarsi. Dalle moregge risalgo verso la Sev e torno nuovamente verso la bocchetta di Leura e giù verso il fontanino del Fo.
Mi siedo a tirare un fiato d’acqua sotto le fronde del gigantesco faggio, il Fo, che domina la fonte. Gli ultimi raggi di sole infiammano il bosco di colori mentre in silenzio ascolto i piccoli tenui rumori che aminano il bosco immobile.
Il mio viaggio si fa più morbido, superata la bocchetta di Ravella scendo tra i prati degli alpeggi lungo la strada che porta al Terz’Alpe. Inbocco il sentiero dello “Spirito del bosco” rompendo il silenzio e fischiettando tra le statue di legno che mi osservano mute. I piedi ormai vanno da soli ed anche i pensieri sono tornati a bassa quota.
Al Prim’alpe “scrocco” un caffè chiaccerando con gli operatori dell’Ersaf che hanno da poco terminato la mutenzione autunnale alla strada e stanno per scendere a valle. Qualche chilometro ancora, prima sui ciotolati e poi nel camminamento che porta all’abbandonato e fasullo Castello di Canzo. Un’ultima scalinata e sono al campo sportivo ormai al buio. Scivolo lungo il fianco del cimitero e sono davanti al Supermercato, davanti alla stazione. Luci, suoni, traffico: una piccola agitata giungla fatta di individui che si inseguono senza quasi vedersi. Regole diverse ma io resto lo stesso selvatico anche lì in mezzo.
Attraverso il ponticello di Scarenna e c’è tempo solo per un’ultima foto scattata con il cellulare. Poi verso casa: è decisamente tempo di farsi un bagno e di scambiare due chiacchiere con qualcuno che non sia il vento.
Davide Valsecchi
Ecco il tracciato del percorso: