L’unico modo per essere sicuri di prendere un pulman in Tanzania è salirvi dalla località di partenza: se lo aspettate in una delle fermate lungo il percorso non vi è modo di sapere quando arriverà. Qualche giorno prima, arrivando a Kathesh, il nostro autobus si era imbattuto in una serie di piante cadute lungo la strada, ovviamente sterrata. Non vi era modo di spostare gli alberi e così i passeggeri, noi compresi, hanno dovuto riempire di terra un canale adiacente alla strada permettendo al pulman di aggirare l’ostacolo attraverso un campo coltivato. Io non ho idea se il contadino fosse d’accordo ma in un’ oretta di lavoro e di ritardo ce la siamo cavata.
Balestre, copertoni, differenziali. Si può rompere di tutto ed i rottami accartocciati lungo le strade ricordano quanto possa andare ancora peggio.Sembra una cosa facile da accettare ma quando sei in piedi dalle sei per prendere un scassato biroccio in ritardo di oltre quattro ore è possibile dimenticarselo, specie se hai un caratteraccio come il mio.
Silenziosamente furioso facevo su e giù per il piazzale sotto il sole maledicendo le strade di questo paese e l’incapacità locale a porre rimedio a problemi che per noi sono ovvi. Due ora prima avevo chiesto al ragazzo che mi aveva venduto i biglietti dove diavolo fosse il mio pulman. Lui ridendo ha preso il cellulare (che qui hanno tutti) ed ha chiamato l’autista: “Few minutes” mi aveva risposto. Probabilmente intendeva in “African Time” visto che erano passate ore!!
Io mi prendo cura di Enzo ed Enzo si prende cura di me. Visto che ero evidentemente “di traverso” ha comprato dei miskaki, degli spiedini alla brace, ed una coca-cola. Quando mangio mi acquieto sempre. Per di più sotto il tappo della mia bottiglia c’era il simbolo che, nel concorso locale, mi dava diritto ad un’altra bibita gratis. Cominciavo ad avere fortuna e con la pancia piena si aspetta meglio.
Con la rassegnazione è giunta anche un po’ di socievolezza ed ho attaccato bottone con uno dei tanti che ciondolavano attorno alle baracche della fermata del bus. In un posto sperduto come Katesh la maggior parte della gente non ha nulla di meglio da fare che tirare sera e due Nzungo impolverati con gli zaini sulle spalle sono un ottimo diversivo.
Il tipo attacca con le solite domande di rito. La più ovvia è “di dove sei?”. Gli rispondo “Italy” ma visto che non ho nulla da fare raccolgo da terra un sasso e comincio a disegnare lo stivale nella polvere grigia del piazzale. Non è un gran disegno ma rende l’idea. Il tipo mi chiede dove sia l’Inghileterra e così piano piano comincio a disegnare tutti gli stati d’Europa.
La cosa sembra divertire molto perchè, mentre dico a voce alta i nomi dei vari paesi, comincia a formarsi un certo pubblico attorno al mio disegno. Poi uno mi chiede “Ma dove sta la Tanzania?”. La domanda aveva un senso. Mi alzo, mi guardo intorno e calcolo le proporzioni, poi faccio quattro passi nel mezzo del piazzale e disegno la Tanzania. “Così lontana?” Certo che è lontana, l’Africa è grande!!
Ed è a questo punto che rimango stupito: sono tutti democraticamente convinti che l’Europa sia più grande dell’Africa. Io provo a spiegargli che l’Europa “ci sta” comodamente almeno due o tre volte nel loro continente ma loro non sembrano crederci. Così comincio a disegnare l’Africa e tutti i paesi che mi ricordo. Il publico diventa una piccola folla.
Lo spettacolo diventa quasi comico quando devo disegnare l’Australia e le Americhe visto che sono costretto ad invade quasi tutto il piazzale spostando la gente. Descrivendo l’Antartico, il grande continente al polo Sud coperto dai ghiacci, sembrava parlassi di un altro pianeta. Nello zaino avevo un libro con un’immagine della mappa piana del mondo con la suddivisione in fuso orari. Mostrandola a quella gente allibita mi sentivo come il possessore del libro magico dei segreti.
Tutti i presenti avevano un cellulare, qualcuno un berretto del Manchester, qualcuno mi aveva persino dato i risultati dell’Inter e la maggior parte di loro parlava inglese eppure nessuno di loro sembrava aver mai preso in mano una cartina e sapere come fosse fatto il loro continente!! Non erano aborigini della “Shamba” eppure difettavano di un’informazione così semplice.
Molto prima degli otto anni mio padre appese nella mia cameretta una cartina da muro dell’Italia, qualche anno dopo arrivò con una cartina “politica” e “fisica” dell’Europa ed un mappamondo luminoso ha sempre fatto bella mostra di sè in cima all’armadio. Oltre a questo abbiamo passato gli intervalli delle elementari a scarabocchiare sulle cartine nei corridoi della scuola. Al CAI mi hanno insegnato ad usare mappa e bussola, forse non me la cavo con un sestante ma un GPS o un navigatore lo so usare tranquillamente. Senza esagerare ma con l’aiuto di un calendario posso anche calcolare la mia posizione nel nostro Sistema Solare ed ho una vaga idea di come triangolare la nostra galassia con quelle vicine.
Insomma io conosco, con un’adeguata approssimazione, la mia posizione nell’Universo conosciuto mentre tutti quelli che mi stavano attorno nemmeno conoscevano i confini del proprio paese. Forse può sembrarvi sciocco ma, in quel divario di conoscenze, mi sono ritrovato tra le mani un piccolo problema filosofico: io so esattamente dove sono ma non ho idea di dove stia davvero andando. Nonostante tutta la mia scienza, la mia cognizione spazio temporale, io e loro eravamo alla pari nell’azzardare una risposta ad una delle domande più semplici e complesse allo stesso tempo: “Che diavolo stiamo facendo qui?”. A volte sono sconsolanti i limiti della scienza…
Una vocina interiore mi sfotteva:“Non importa dove vai Birillo, ce l’hai un fiorino!?”. Questa è una giornata nata storta, da buttar via la testa. Rido nel mezzo di questo niente in cui galleggiamo: il vero problema è che se quel dannato pulman non arriva non sò proprio dove andremo!!
Hakuna matata gente!!
Davide Valsecchi